giovedì 9 giugno 2011

All These Places Have Their Moments

Congedata a malincuore la cara vecchia Dublin - come abbiamo anticipato nel post precedente - la nuova meta della Tana è dall'altra parte del Mare d'Irlanda. L'aereo che ci condurrà in quel di Liverpool è gremito da personaggi di dubbia sobrietà vestiti con la maglia di Rooney - quella del Manchester United, pero'. Affiorano dubbi amletici. Liverpool è adagiata su una sponda del gigantesco estuario del Mersey (non ci riesco a dire la Mersey, scusate): dall'altra parte del fiume, infatti, ci sono soprattutto ciminiere, fumo, grigio e qualcosa che dal finestrino sembrerebbe una specie di colata di fango. L'aeroporto di Liverpool è davvero speciale, non foss'altro perché si chiama John Lennon Airport, le cui pareti sono corredate da frasi provenienti da celebri canzoni di chi potete facilmente immaginare. La migliore (nonché la più adatta alle circostanze) è ovviamente "above us only sky". Oh yes, pensiamo. Appena saliti sul bus che ci porterà in centro un tizio dalla pancia enorme, l'impermeabilino rosso e la faccia di chi conosce ogni singolo anfratto del bancone, sale e chiede con tono gentile a tutti i presenti se siamo davvero sicuri di aver preso il bus giusto. Sgraniamo gli occhi. Poi quello ci saluta ancora più gentilmente ed il bus parte. Attraversiamo campagne piene di campi di cricket e di casette a mattoni rossi. Penny Lane è proprio da queste parti (ma non ci andremo), Strawberry Fields pure. Il centro corrisponde al cosiddetto Liverpool One, frutto di recenti lavori di bonifica,  ammodernamento e chi più ne ha più ne metta e che - ahinoi - è semplicemente una serie di vie in mezzo a palazzoni grigi farciti di centri commerciali colorati. E' domenica e 'sti cazzo di centri commerciali sono tutti aperti. Lo si capisce anche dal fatto che la gente passeggia con le buste in mano emanando una scia profumata di patatine fritte. Diciamocela tutta: l'impressione, dopo circa 15 minuti di camminata, è che Liverpool (si, sappiamo dei bombardamenti durante la Seconda Guerra Mondiale) sia un autentico cesso. Sconfortati, ci dirigiamo quindi verso l'Albert Dock, zona del porto a cui è stato rifatto il trucco ed ora è un viavai di turisti che vogliono visitare i vari musei, fra cui - manco a dirlo - il Beatles Story, di chioschi di gelati e di gabbiani. Il museo dedicato ai Fab Four è la sola ragione per cui ci troviamo qui, oltre al fatto che il biglietto aereo costava 5 euro e che lo scalo era necessario per tornare a casa. Se vi state immaginando chissà quale incredibile ingresso per entrare al museo (ve lo state immaginando? Dite di si'), be' avete sbagliato in pieno. L'edificio è - ma va? - a mattoni rossi e vi si accede con una piccola e discreta scalinata dello stesso colore. Prezzi non proprio popolari ma chi se ne frega. Anche qui, tutti gentilissimi. Sono le ultime ore di apertura e, oltre a noi, ci sono giusto alcuni turisti giapponesi. Audioguide e via. Se vi piacciono John, Paul, George e Ringo, andateci. Noi non siamo rimasti delusi. C'è la ricostruzione di qualunque cosa abbia a che fare coi Beatles, dagli strumenti alle locandine, ai locali e alle stradine in cui hanno cominciato la loro carriera (con tanto di topo finto). Si puo' fare un giro dentro allo Yellow Submarine oppure provare gli specchi psichedelici del Sgt. Pepper o ancora sedersi in aereo in attesa di compiere il primo tour negli USA. E si ascoltano le canzoni. A livello di gadget, poi, c'è tutto ed il contrario di tutto, basti pensare che nello shop del museo (all'uscita) è possibile acquistare il certificato di nascita (giuro) di Ringo Starr per circa 25 sterline, oltre ai più prevedibili occhialini di John Lennon ed a un milione di altre cazzate del genere. Rinfrancati dal Beatles Story usciamo a goderci (eufemismo) il resto della città. Premessa: ogni dieci minuti piove, a volte anche a catinelle. La cosa che ci colpisce - non scherziamo affatto - è che comunque Liverpool non sfrutti i Beatles come sarebbe stato lecito attendersi. Tanto per dare un'idea: a Dublino la Guinness è veramente dappertutto con le sue pinte ed i suoi tucani, a Liverpool i Beatles non sono altrettanto presenti. La città è proletaria e con un'anima poco incline al turismo (lo dimostra anche il nostro magnifico hotel, che in un'altra città avrebbe avuto un prezzo impossibile per le nostre tasche). Fatto sta che abbandoniamo l'Albert Dock e ci lasciamo guidare dalla vista dell'imponente cattedrale anglicana, apparentemente non troppo distante, che rappresenta un po' la nostra stella polare. In realtà camminiamo per mezz'ora e la cattedrale assume sempre più i contorni di un'oasi nel deserto, diventando ancora più lontana. Per orientarci utilizziamo la bellezza di un foglio di google maps stampato a Dublino ed una sorta di guida che abbiamo trovato qui. Giungiamo infine a ridosso della cattedrale (che in effetti è splendida), attraversiamo Chinatown e finiamo come per magia presso l'altra cattedrale, quella cattolica. Esausti e con istinti cannibaleschi, ci rendiamo conto che quel tanto decantato ristorante greco è esattamente di fronte. Inutile dirvi come va a finire. Il proprietario e la moglie (ciprioti, probabilmente) sono fantastici e stanno tutto il tempo a chiacchierare con noi di differenze culturali, di cucina e di cazzi loro con un improbabile accento british. Noi nel frattempo ci abbuffiamo di moussaka, di pita e di altre squisitezze. Non ce ne voglia Via Usai, ma qua è tutta un'altra storia. Ventre pieno e gambe in spalla, si continua verso nord-est, cioè in direzione del St. Georges Hall, del Liverpool Empire Theatre, dello splendido St.John's Garden. E' il tramonto e questa parte di Liverpool - più periferica ma molto più autentica - ci fa ricredere. Inoltre abbiamo un'aspetto talmente professional che una coppia di brasiliani ci ferma per chiedere indicazioni e scoprirà di dover andare dall'altra parte della città con le valigie in mano. Il rientro verso l'hotel è preceduto da lunga passeggiata lungo Victoria Street, passando per la mitica Mathew Street, e quindi di fronte al Cavern (paraculo come era facile immaginare). Sono le 10 di sera e ci sono i bar al piano terra con la musica anni ottanta a palla e la gente che si dimena. Altrove, c'è gente che guarda alla tv del pub i goals del campionato spagnolo. L'indomani la partenza è prevista abbastanza chizzo, anche perché l'aeroporto è annunciato come particolarmente caotico, con possibilità di file interminabili. Per non rischiare arriviamo in anticipo e non c'è un cane. Abbiamo tuttavia il tempo di acquistare t-shirt alla metà del prezzo del Beatles Shop, plettri, tazze e quant'altro. Il viaggio ormai è finito e l'unica cosa che ci vorrebbe (oltre al sandwich al tonno) è una bella doccia. Dopo aver sonnecchiato per oltre un'ora, atterriamo placidamente: siamo fra i pochi che non siano inglesi in vacanza. Sprintiamo come Bolt per fare per primi i controlli, convinti di sbrigarci in fretta. Purtroppo alla dogana c'è un controllore fantozziano che non è convinto della mia carta d'identità. Ci spiega con la sua faccia di cazzo che c'è stata un'allerta sulle carte d'identità italiane falsificate. Ovviamente gli stessi controllori si dispongono tutti a novanta al passaggio degli inglesi (compresa suora vestita da suora da capo e piedi e con occhiali da sole). Pensiamo subito che notoriamente i tunisini in fuga fanno scalo a Liverpool, essendo tutti fans dei Beatles. Lo stronzo insiste, nonostante le spiegazioni. Alla fine le nostre facce scure lo costringono a chiamare la sua capa, una tizia allampanata che - si scoprirà poi - era intenta ad approfondire ben altre dinamiche al bistrot dell'aeroporto. La tizia ha le idee chiare e, per verificare la mia effettiva nazionalità tricolore, prende la carta, cerca di leggere e dice: "tu nome" e "tu coghnome". Mi astengo dal commentare che il sistema è quantomeno opinabile e ridendo sotto i baffi posso finalmente andarmene. Arrivederci, fanno quelli della dogana. Ma anche no, rispondo.     

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