lunedì 23 luglio 2012

Cavoli A Merenda

Eravate lì col dito puntato, vero? Avevate già pronunciato le orazioni funebri? Stavate festeggiando? Bravi. Anche noi (nel rispetto della par condicio) replichiamo col dito puntato – quello medio, però. In un certo senso non avevate tutti i torti: la Tana nell’ultimo mese ha latitato, vuoi per mancanza di tempo, vuoi perché il rientro nell’Isola è coinciso con l’assenza di una connessione internet, vuoi per i cazzacci miei. Bisogna ammettere che si vive benissimo anche senza internet, ma gestire un blog – perfino un blog ridicolo come quello che avete attualmente sotto gli occhi – diventa un tantino complicato. Ora che abbiamo rimediato possiamo riprendere, come di consueto, a perdere tempo in rete; tuttavia possiamo pure raccontarvi una storiella che è in cantiere da un po’ e che abbiamo sempre rimandato a data da destinarsi. Narra del vostro blogger preferito che ha intrapreso la dorata carriera di insegnante d’italiano in terra straniera. E narra soprattutto delle insidie che tale mestiere propone, in particolar modo quando meno te lo aspetti. 
Il tutto nasce da una lezione come parecchie altre, incentrata su non so più quale regione italiana, mi sa che era l’Abruzzo. Per farla breve, il libro ne illustrava la produzione agricola, cosa che imponeva fin da subito una doverosa parentesi al fine di tradurre i nomi più gettonati: la melanzana, la zucchina, il cavolfiore, eccetera. Ad un certo punto, fra i protagonisti della parentesi compare il cavolo. Eccolo qui, il colpevole: il cavolo. Di sicuro vi chiederete quali pericoli possa celare il cavolo: li cela, li cela. Fidatevi. Probabilmente tutto sta nell’uso differente rispetto al francese dove – eh lo so che è strano, ma che cazzo ci volete fare? – il termine cavolo ("chou") può facilmente divenire un appellativo affettuoso, una specie di "tesoro". Bene, gli studenti a quel punto domandano, praticamente in coro: in italiano funziona allo stesso modo? Eh, manco per sogno. Ve lo immaginate? È necessario precisare che in italiano sarebbe alquanto ridicolo e che, anzi, cavolo è un’esclamazione dal sapore assai diverso. Ergo, spieghi loro che non è poi volgare, ma che da un punto di vista semantico il cavolo può essere sostituito da un’altra parolina magica, dalla connotazione anatomica (per la cronaca: in francese punteggiare la frase con il sesso maschile non ha alcun senso, dato che tale ruolo è svolto dal mestiere più antico del modo). Chiusa parentesi? Si torna alle carote ed ai confetti di Sulmona? State freschi.
Domande a raffica. Come si dice questo? E quest’altro? E quest’altro ancora? Divento un autentico bersaglio mobile, sebbene sia divertito dall’aver sprigionato una simile curiosità. Rispondo, da principio un po’ timidamente – forse a causa del divario generazionale. Poi capisco che il pubblico freme, sempre più impaziente: vuol sapere esattamente come si dice coglione e come si pronuncia, e c’è perfino chi – ex prof di spagnolo, almeno credo – si addentra nella comparazione con l’idioma iberico. Una babele di peni, vagine, testicoli, prostitute e chi più ne ha più ne metta. Insomma, la frittata è fatta.
Immaginate perciò l’imbarazzo del vostro umile e affezionatissimo insegnante: rigorosamente in piedi, spalle alla lavagna e in mano pennarello e cimosa (non è proprio una cimosa, ma vabbè, rende l’idea), costretto – causa pronunce esilaranti – a scrivere le parole una per una, con tanto di accento sottolineato. Ed è in quell’istante che accade qualcosa di assolutamente imprevisto: mentre scrivi bello in grande TESTA DI CAZZO (con tanto di accento sulla a di cazzo) provi una sensazione strana. È come se la distanza spazio-temporale risultasse improvvisamente annullata. Malgrado gli oltre mille chilometri che ti separano dalla tua città natale e gli oltre vent’anni trascorsi dall’epoca delle elementari, ti ritrovi a stendere un bel VAFFANCULO (con accento sulla u, mi raccomando), come se la lavagna fosse diventata di colpo – chessò – la porta del cesso della scuola. Te ne accorgi dalla fretta di cancellare le scritte, nonostante ciò, in realtà, non presenti alcun rischio: per gli studenti quelle parole non rappresentano granché (hanno afferrato il significato, ma non la catartica musicalità insita nel pronunciarle), per la bidella addirittura anche meno, dato che non studia italiano. Quello che a loro manca, cioè, è l’infantile fascino del divieto. Di conseguenza, incitato dai sessantenni ululanti di gioia – ad eccezione di una signora timorata di dio che finge di scandalizzarsi – puoi dar sfogo all’incontrollabile pulsione di scrivere qualsiasi cosa ti venga in mente. Sei ritornato ai tuoi dieci anni, sei di nuovo a casa. La parolaccia è uno stargate.
Quando, infine, credi di aver soddisfatto ogni sorta di curiosità – comprese, ehm, spiegazioni anatomiche piuttosto dettagliate che per fortuna non sfociano in traduzioni di pratiche sessuali vere e proprie – sei convinto di attraversare la porta dall’altra parte e che stai tornando al 2012, all’Abruzzo ed al contegno che il tuo ruolo di insegnante ti impone. Eppure, come detto in precedenza, le insidie sono sempre dietro l’angolo: inoltre se c’è un caso in cui esiste il tanto decantato effetto domino, bè eccovelo qua. Un attimo prima di riabbracciare i confetti di Sulmona una studentessa, dalle lontani origini italiane, si fa tutta seria e domanda un chiarimento. Si tratta del significato di un’espressione che “pronunciava sempre mia nonna”. “Di dov’era tua nonna?” “Vicino a Piacenza” Ah ecco – pensi tu, povero ingenuo che non sei altro – l'antica cultura contadina dell’Emilia. “E che cosa diceva tua nonna?”. Questo (perdipiù con accento francese).
A quel punto cala il sipario. E cominciano gli applausi