mercoledì 12 dicembre 2012

La prossima la giochiamo a New Orleans

Quando – circa un paio di mesi fa – sono venuto a sapere che la Dinamo avrebbe giocato in Eurocup a Orléans non ho esitato neppure per un secondo. Orléans dista da qui circa due ore e mezza, un lasso di tempo di fronte al quale anni fa avrei risposto "col cazzo"; invece, sarà perché negli ultimi due anni la Dinamo l'ho vista solo sottoforma di play-to-play, sarà perché mi sono abituato alle lunghe distanze, insomma Orléans mi è parsa immediatamente una tappa obbligata. Ne sono cambiate di cose, in questi due anni, e non soltanto per il vostro umile e affezionatissimo blogger: la Dinamo – che ai miei tempi regalava domeniche pomeriggio sbadiglianti e post-alcooliche in LegaDue contro Scafati, Osimo o Fabriano, con il Palazzetto che mostrava un entusiasmo piuttosto contenuto – è nel frattempo salita nella massima serie. Non solo: ha fatto i playoff. Ah no, è arrivata alle semifinali dei playoff. Anzi, si è addirittura qualificata per l'Eurocup. E adesso tutti a Sassari seguono la Dinamo, e al Palazzetto non ci sta più neanche uno spillo.
A me 'sta cosa – a ripensarci – sembra ancora una specie di scherzo perenne, in atto a mia insaputa da un biennio – eppure è tutto vero. Ne parlavo tempo fa con l'amico Ignorant Shooter, testimone anche lui dei Grappasonni di turno e delle basette allegre di coach Bernardi: esattamente come me, pure lui segue ora queste vicende da lontano, in un clima di comica incredulità. Ci siamo detti che eravamo noi, a portar sfiga, e finora nessuno si è preso la briga di smentirci.
Detto questo, l'emozione di seguire la squadra della tua città quando vivi all'estero non puoi negartela, fanculo le due ore e mezza di macchina. Fanculo anche il lavoro, gli spostamenti, i camion in autostrada, il traffico, il non trovare il palasport nemmeno con googlemaps, le bestemmie contro Giovanna d'Arco, i "cazzo non c'è parcheggio da nessuna parte": le due ore e mezza diventano quasi quattro.
Giungiamo a destinazione in pratica alla palla a due e con lo stogamo brontolante. Per fortuna che, essendo in possesso di accredito stampa non dobbiamo fare la fila, o meglio entriamo da un ingresso secondario dove c'è scritto una roba tipo "stampa" ma anche "vip". Quindi veniamo accolti come i Re Magi e condotti letteralmente sul parquet: al tavolo ci dicono "no, non qua, lassù", ed infatti la tribuna stampa ci attende, con il suo posto riservato. L'accredito al collo suscita la curiosità degli educatissimi spettatori: li sento mormorare "oh, hanno mandato i giornalisti italiani", cosa che mi fa morire dalle risate ma si vede che quelli non prendono mica per il culo, sono lusingati. Allora sfodero una faccia seria e professionale e ripenso a quando, non lontano da Parigi, mi invitano ad una rassegna nella mediateca cittadina e vengo presentato (nonostante il mio curriculum) come "Professore di Letteratura (quale?) all'Università della (!) Sardegna". Parole come macigni (nessuno ha idea di cosa sia in realtà la Sardegna: una città, una nazione, un dipartimento, una corrente filosofica) che producono un "ooooh" di rispettosa approvazione dalle file in fondo.
Anche a Orléans sono molto gentili e si affrettano a darti spiegazioni di ogni tipo perché pensano che tu sia venuto fin li da Sassari per seguire la partita quindi sicuramente sarai un po' stanco: non si rendono nemmeno conto che gli parlo in francese, rispondono in inglese per educazione. Ad ogni modo, la partita è uno spettacolo indegno. A parte che il pubblico (scarso) ha un'età media di settant'anni, con le ovvie conseguenze sul pathos dato all'evento, la Dinamo gioca in maniera ridicola e giustamente perde. Io, che ci devo scrivere un articolo, sono piuttosto distratto: all'inizio non ho internet, poi ce l'ho ma la password è un geroglifico, poi è l'intervallo e mi dedico al sandwich di subway sbrodolando dappertutto, infine rialzo la testa ed è tutto finito. Devo confessare una certa delusione: me l'aspettavo diversa, questa Dinamo in Francia. Forse perché manca il tifo – e dentro di me sognavo di esultare in solitaria zittendo i supporters locali in dialetto turritano – ma soprattutto perché quando perdi di 15 hai ben poco da esultare. La sensazione è che tutto sia troppo anonimo per essere ad oltre 1000 km da Sassari, pero' la colpa probabilmente è tua.
Alla fine mando il pezzo, accetto i pasticcini gentilmente offerti dall'addetto stampa e mi sparo pure le interviste – deliranti per colpa delle traduzioni simultanee. Tuttavia, quando ritroviamo la macchina senza multa mi dico che poteva andare peggio e ritrovo il sorriso. Ipse dixit: a 20 km da Orléans facciamo sosta per mettere benzina ma la macchina non parte più. Manco a spinta (si scoprirà essere colpa del motorino d'avviamento). È quasi mezzanotte, siamo stanchi morti, in culo ai lupi e, come se non bastasse, la Dinamo ha perso. Tutte le peggiori bestemmie da stadio, che non ho potuto utilizzare al palasport, tornano di attualità. Che fare? Meno male che l'assicurazione ci regala un passaggio col carroattrezzi fino al garage, un luogo ideale per un omicidio, poi addirittura il taxi fino a casa. Il bello è che non bisogna sborsare manco un centesimo. Si parte. C'è una nebbia che non si vede veramente un cazzo di nulla ed il tassista è di quelli simpatici che non smettono di parlare un nanosecondo. Giungiamo a Limoges, fra una balla e l'altra, verso le 3 del manzano: il tassametro segna circa 360 euro e mi viene istintivamente da sgranare gli occhi. Un finale del genere, mi dico, rende tutto più epico. Perfino una sconfitta.       

martedì 20 novembre 2012

Attacco l'Alsazia con dieci armate!

Non dite che non vi avevamo avvisato: mantenere in vita questo blog non è affar semplice. Ora, ad esempio, ho giusto il tempo di usare il defibrillatore e vedere un po' che cosa ne è rimasto. Per darvi un'idea: questo post è stato inizialmente concepito un paio di settimane fa, e vede la luce solo adesso. Le due settimane fa coincidevano con il rientro dall'esplorazione della Francia orientale, ovvero oltre 2000 km di bontà in olio d'oliva. Eh già, perché ce lo siamo fatti en voiture, il giretto, con tanto di sconfinamenti e pranzi al sacco come nella miglior tradizione della Tana. Inutile percio' stare ad elencarvi pedantamente itinerari, menù, andamento delle temperature. In sintesi: tutto piuttosto bello, tutto piuttosto buono, un freddo da bazzi. Ecco allora le dieci cose dieci da ricordare – non necessariamente le migliori – del recente viaggetto in Alsazia e dintorni. Pronti, via:

1. Poco dopo la scoppiettante Auxerre (pieno centro deserto di sabato pomeriggio: la visione di un camioncino che faceva le crêpes è parsa inizialmente un miraggio), un inatteso regalo propostoci dal percorso: in una tanca di fèrula nel bel mezzo della campagna abbiamo avvistato un cartello con annesso indiscutibile logo, PIZZERIA BATMAN. Il bello è che son riuscito poi a trovarlo in qualche modo anche in rete, peccato non ci sia il sito ufficiale con il menù perché secondo me merita.

2. Il benvenuto in Germania – dove non ci sono limiti di velocità, tranne che in alcuni tratti – ci è stato dato da un tizio in autobahn. Non appena abbiamo messo piede (o per meglio dire, ruota) sul suolo teutonico siamo stati sorpassati da un'auto che andava di certo ad oltre 200 km/h. È stato come vedere avvicinarsi un meteorite nello specchietto retrovisore. Dice: e che macchina era? E chi cazzo l'ha vista? Era bianca.

3. Non ho assolutamente idea del perché, ma quando facevamo colazione negli hotel la mattina – momento notoriamente fra i migliori di ogni viaggio che si rispetti – ogni volta c'erano delle giovani famiglie spagnole, o sudamericane, insomma parlavano spagnolo. Aria simpatica ma un tantino a disagio, tortillas individuate col radar e, soprattutto, la tuta. Padre, madre e possibilmente anche figlio piccolo, tutti in processione come matrioske con le loro belle tute in acetato (!).

4. A Strasburgo (a proposito: a parere di chi vi scrive più bella città di Francia dopo la capitale), abbiamo trovato una trattoria dall'aspetto invitante e sufficientemente croccante nel cuore del centro storico. I pochi dubbi sulla qualità della cucina sono stati spazzati via dal vecchietto nel tavolo di legno accanto, che si è addormentato durante la degustazione del suo brasato di cervo con porcini. Un secondo dopo, abbiamo ordinato. Alla fine il vecchietto si è risvegliato e si è portato via il suo quartino di rosso.

5. Sempre a Strasburgo ci è capitato di visitare una chiesa dalla storia intrigante (ce ne sono due che portano lo stesso nome ma la prima originale era protestante mentre questa è cattolica) e una vecchietta – non pensiate che siano tutti vecchi a Strasburgo, anzi – ci ha accolto in qualità di "guida" per raccontarci le varie vicende che hanno portato alla sua costruzione. Rivolgendosi alla mia dolce metà ad un certo punto ha detto "ah ma lei forse non capisce il francese." Ovviamente ha proseguito il suo monologo turistico-religioso con me, che a quel punto non ho aperto bocca manco per sbaglio.

6. In Alsazia – immagino a causa delle temperature intrattabili – quando entri in un ristorante, trattoria, taverna, ovunque, ci sono delle enormi tende che separano la porta d'ingresso dalla sala vera e propria e dunque mantengono caldo l'interno. Il bello è che in alcuni casi (diciamo nei luoghi più promiscui) per districarti finisci quasi per gettare il bordo delle tende nella zuppa dei clienti più disgraziati, capitati sfortunatamente vicino all'uscita. Come se già non bastasse il freddo.

7. A Colmar, cittadina peraltro bellissima, siamo arrivati verso le sette di sera e non c'era un cane in giro. Negozi chiusi, illuminazione inesistente, grossi punti di domanda sul perché cazzo non ce ne siamo rimasti a Strasburgo. A coronamento dei dubbi uno stormo di corvi – apparentemente gli unici esseri viventi nel raggio di svariati metri – ha cominciato a gracchiare. Ci siam detti: troviamo un ristorante e boh. Mi è venuta un po' meno fretta quando ho iniziato il mio baeckeoffe.

8. Ancora le stranezze di Colmar. Da queste parti il colmarien più famoso a tutt'oggi è Bartholdi, il cui nome lo si ritrova un po' dappertutto come il prezzemolo. Tanto per omaggiare il loro celebre concittadino a Colmar hanno edificato una riproduzione della Statua della Libertà. Dove l'hanno messa? L'hanno strategicamente collocata in una rotatoria in piena zona industriale, fra un caseggiato e l'altro all'ingresso della città. La prima reazione è chiedersi dove cazzo si è finiti. Chissà perché ma mi sono immaginato un enorme candeliere in una qualunque zona di Predda Niedda: ecco, nonostante tutto forse perfino il candeliere sarebbe meno brutto.

9. Magica Colmar. Prima di partire abbiamo fatto un meritato pit-stop al supermercato, Leclerc, ovvero lo stesso che frequentiamo qui a Limoges. In questo luogo meraviglioso – che ci consente oltretutto l'acquisto di una bottiglia di Cynar, oggetto la cui ricerca stava diventando una sorta di tentativo di conquista del Sacro Graal – abbiamo notato che il reparto alcolici è qualcosa come il triplo (anche in proporzione agli altri reparti) rispetto a quello che vediamo abitualmente. Poi ho alzato lo sguardo ed ho visto i volti rubizzi dei clienti. Una fazza una razza.

10. Mossa finale da campioni, ancora nel suddetto supermercato: non paghi del Cynar, del Riesling, nonché di altre puttanate varie, abbiamo optato per l'acquisto del Munster, un formaggio dall'odore inconfondibile che successivamente ci allieta per i quasi settecento chilometri che ci separano da casa. La sistemazione nel bagagliaio – con tanto di buste, casse, frasche e sterpaglia – non neutralizzerà gli effluvi manco per il cazzo, cosicché ogni qual volta bisogna fare una pausa si aprono le portiere ben consci del pericolo. Pero' è talmente buono che, piuttosto che gettarlo via, abbiamo tenuto il respiro.

mercoledì 24 ottobre 2012

Chilometro Zero

Con la pubblicazione delle classifiche (cosa che accade due volte l'anno: a giugno ed in ottobre, quando il sito della federazione è talmente intasato da non risultare accessibile) la stagione tennistica torna - diciamo pure prepotentemente - di attualità.
Dopo un'estate di battaglie pomeridiane con 35° o peggio, si riprende a giocare sul duro, al chiuso e a dispensare bestemmie in diretta, che tanto qua nessuno ci capisce niente. Tennis sport da ricchi, direte voi. Mica tanto: con un centinaio d'euro sono un signore per tutto l'anno e quello che pago il più delle volte è solo la classica birretta post-partita (a tale proposito la scoperta della consumazione gratuita durante i match a squadre fra diversi club – che si svolgono di norma la domenica mattina e spesso piove, o c'è nebbia o comunque fa un tempo di merda – è stata accolta la prima volta con un'autentica ovazione, tipo ola). Una specie di free-drink tennistico, insomma, ad esclusione dei vari tornei, il cui prezzo – va detto con rammarico – resta spesso inferiore a due ore di tennis nei soleggiati campi turritani. E le palle (mai più di quattro) sono fornite dal club. Non che qui sia tutto perfetto, ovviamente: basta partecipare a qualche competizione ufficiale per farsene un'idea. Una volta, durante un torneo nelle vicinanze (vicinanze nel senso 10 minuti a piedi da casa) mi hanno piazzato gli incontri rigorosamente alle 15 nonostante temperature adatte soltanto ai rettili. Di ombrelloni manco a parlarne; abbiamo spostato le sedie di plastica a ridosso di una siepe, quel tanto che bastava per ottenere un po' d'ombra e per sentire in sottofondo il rilassante gorgoglio della piscina alle nostre spalle. Il risultato è stato che un giorno, dopo un'oretta circa, ho cominciato a non sentire più le gambe a capire che ero pronto a vomitare. Ho chiesto una sosta per andare in bagno, dove mi sono bagnato la faccia; guardandomi allo specchio mi son detto che una volta uscito avrei comunicato l'abbandono al mio avversario (anche se stavo vincendo nettamente). Pochi secondi dopo il tizio – che fino a cinque minuti prima era impeccabile e non sudava neppure – mi stringe la mano e mi dice "non ce la faccio più, ho voglia di vomitare". Vittoria per ritiro.
In un altro torneo, in un paesino qua vicino, ho esordito nel gironcino all'italiana – cosa normale ai primi turni – in un campo in mateco, all'aperto. Il giorno dopo diluviava e ci hanno spostato all'interno. Il campo? In erba. Il terzo giorno era ritornato il sole ma per misteriose questioni di orari accavallati non c'era più posto.
Ci hanno spediti su un campo in greenset; peccato che fosse in un altro club a quasi 10 km dal luogo previsto originariamente. Preferisco non aggiungere dettagli sulle sedie degli arbitri piene di ragnatele. Ora, sono giusto degli esempi, a prescindere dagli indiscutibili vantaggi pecuniari rispetto al loco natìo. Tuttavia, è stato proprio durante l'estate appena trascorsa che mi è capitato qualcosa di significativo a riguardo. In seguito a ripetuti esborsi di dollari nei più prestigiosi club sassaresi, abbiamo deciso di spendere meno e di testare i cari vecchi campi del Chilometro. Non sapendo come funzionavano le cose – io ci avevo già giocato, però parecchi anni addietro – abbiamo chiesto se bisognasse pagare prima o dopo la partita. Il gentleman che gestisce la baracca (cioè che gestisce soprattutto il bar), senza neppure dire ciao, ci domanda: "lo sapete chi è che vuol essere pagato in anticipo?". Sguardi attoniti, silenzio di tomba. "Le bagasse" è la risposta. È stato in quel preciso istante che ho capito perché a Sassari i campi da tennis costano quel qualcosina in più.

Don't Let Me Be Misunderstood

Inconsueto come post, ma non ho resistito. Corso d'italiano, i miei studenti hanno fra i 18 ed i 21 anni. Sono solo tre. Come d'abitudine, termino le due ore di lezione – che vanno dalle 13h30 alle 15h30, quindi sbadigli assicurati – con qualche gioco, preferibilmente semplice, dato il livello vergognoso dei partecipanti. Stavolta il gioco in questione è una serie di anagrammi relativi alle città italiane. "Ragazzi, ogni parola nasconde il nome di una città italiana, d'accordo?" (le istruzioni le ho fornite in francese, per precauzione). Prima parola: AMOR. Molto difficile. "Ok ragazzi, amor è l'a-n-a-g-r-a-m-m-a di...?" 
Risposta (in coro): VENEZIA.
Vi lascio immaginare com'è andata con Perugia o Catania. 

mercoledì 10 ottobre 2012

Birdwatching

Ora, non è che soltanto perché la frequenza dei post su questo blog sta per avvicinarsi sinistramente a quella della cometa di Halley, devo per forza rendere epiche le prime righe e mettere le mani avanti giustificando le ragioni di tale silenzio. No, non lo devo mica fare. Per cui, bando alle ciance e parliamo invece delle recenti avventure del vostro inviato in Gallia.
La stagione autunno-inverno – da un punto di vista della Tana del Grillo – è cominciata in una maniera che oseremo definire "scoppiettante". Tante belle storie, ma anche tanto poco tempo per ritrovarsi a tu per tu con la tastiera. Per oggi dunque ci limiteremo ad un ambito che, normalmente, è in grado di regalarci un sacco di soddisfazioni: le lezioni di italiano, durante le quali il Vostro ricopre il ruolo di insegnante. Eccoci qua, allora, a riprendere i corsi ed a incontrare gli studenti. È come il primo giorno di scuola: ci si presenta, si parla, si ride, in pratica non si fa un cazzo per un'ora e mezza e soprattutto tu – insegnante – ti rendi conto che gli alunni hanno dimenticato praticamente tutto quel poco che sapevano. Argomenti a scelta, fra i quali non possono mancare le vacanze estive. Qui c'è gente che – beata lei – va spesso in vacanza. E non necessariamente dietro l'angolo. Una signora, un'autentica veterana, racconta a tutti del suo recente viaggio in (!) Cina e Mongolia. Si è fatta in pratica quella che comunemente si chiama la Transmongolica – niente Vladivostok (peraltro uno dei sogni bagnati di chi vi scrive), bensì rotta verso Pechino. E fin qui, nulla di strano. Poi, a resoconto (zoppicante) terminato, un lampo negli occhi della Signora.
Signora: Posso raccontare qualcosa di strano che mi è successo? 
Insegnante: E come no. 
S.: In Cina ho visto una mostra di... come si dice in italiano... di uccello
I.: Ah, di uccelli. Ok. 
S.: Sì, era una mostra di uccello
I.: Bene, una mostra di uccelli. 
S.: Sì, l'uccello era in una scatola, poi prendevano in mano l'uccello... 
Altri studenti in coro: L'uccello? 
S.: Sì, toglievano fuori l'uccello.
I.(con goccia di sudore lungo la tempia, doppio inarcamento di sopracciglia e sorriso represso con notevoli difficoltà): D'accordo...
S.: Ai cinesi piace molto l'uccello. 
I.: Eh sì, i cinesi in effetti... 
S.: Fanno cantare l'uccello. 
Altre discussioni, poi pausa. Il Vostro si sente in dovere di precisare alcune sfumature di significato tipiche del linguaggio colloquiale, cosa che fa spesso. Gli studenti – in realtà sono quasi tutte signore – ridono. Una studentessa dice: Ah qui in Francia invece si dice "il piccolo uccello" (petit oiseau, se preferite "l'uccellino"). L'insegnante senza pensarci, risponde: Eh, ma lo sapete come siamo noi italiani! Un nanosecondo dopo, mi rendo conto di quello che ho appena detto. Temo il peggio. Fortunatamente qualcuno in fondo, fuori dal mio campo visivo, interviene dicendo che gli italiani hanno la cultura del macho. Tiro un sospiro di sollievo. Esatto, dico. Passiamo ad un altro studente, ad altri racconti di vacanze in culo ai lupi. Passano non più di dieci minuti. Altra signora, altro giro. S.: Sono stata in Svizzera. 
I.: Ah bello. 
S.: Sì, ho partecipato a una gara di canto dell'uccello.

(NELLE PROSSIME PUNTATE - non si sa quando: il Vostro che fa l'interprete in Dordogna, un delirio; riparte la stagione tennistica, ma non è come al Chilometro; Sassari Vecchia è emigrata in un villaggio del Limousin) 

lunedì 23 luglio 2012

Cavoli A Merenda

Eravate lì col dito puntato, vero? Avevate già pronunciato le orazioni funebri? Stavate festeggiando? Bravi. Anche noi (nel rispetto della par condicio) replichiamo col dito puntato – quello medio, però. In un certo senso non avevate tutti i torti: la Tana nell’ultimo mese ha latitato, vuoi per mancanza di tempo, vuoi perché il rientro nell’Isola è coinciso con l’assenza di una connessione internet, vuoi per i cazzacci miei. Bisogna ammettere che si vive benissimo anche senza internet, ma gestire un blog – perfino un blog ridicolo come quello che avete attualmente sotto gli occhi – diventa un tantino complicato. Ora che abbiamo rimediato possiamo riprendere, come di consueto, a perdere tempo in rete; tuttavia possiamo pure raccontarvi una storiella che è in cantiere da un po’ e che abbiamo sempre rimandato a data da destinarsi. Narra del vostro blogger preferito che ha intrapreso la dorata carriera di insegnante d’italiano in terra straniera. E narra soprattutto delle insidie che tale mestiere propone, in particolar modo quando meno te lo aspetti. 
Il tutto nasce da una lezione come parecchie altre, incentrata su non so più quale regione italiana, mi sa che era l’Abruzzo. Per farla breve, il libro ne illustrava la produzione agricola, cosa che imponeva fin da subito una doverosa parentesi al fine di tradurre i nomi più gettonati: la melanzana, la zucchina, il cavolfiore, eccetera. Ad un certo punto, fra i protagonisti della parentesi compare il cavolo. Eccolo qui, il colpevole: il cavolo. Di sicuro vi chiederete quali pericoli possa celare il cavolo: li cela, li cela. Fidatevi. Probabilmente tutto sta nell’uso differente rispetto al francese dove – eh lo so che è strano, ma che cazzo ci volete fare? – il termine cavolo ("chou") può facilmente divenire un appellativo affettuoso, una specie di "tesoro". Bene, gli studenti a quel punto domandano, praticamente in coro: in italiano funziona allo stesso modo? Eh, manco per sogno. Ve lo immaginate? È necessario precisare che in italiano sarebbe alquanto ridicolo e che, anzi, cavolo è un’esclamazione dal sapore assai diverso. Ergo, spieghi loro che non è poi volgare, ma che da un punto di vista semantico il cavolo può essere sostituito da un’altra parolina magica, dalla connotazione anatomica (per la cronaca: in francese punteggiare la frase con il sesso maschile non ha alcun senso, dato che tale ruolo è svolto dal mestiere più antico del modo). Chiusa parentesi? Si torna alle carote ed ai confetti di Sulmona? State freschi.
Domande a raffica. Come si dice questo? E quest’altro? E quest’altro ancora? Divento un autentico bersaglio mobile, sebbene sia divertito dall’aver sprigionato una simile curiosità. Rispondo, da principio un po’ timidamente – forse a causa del divario generazionale. Poi capisco che il pubblico freme, sempre più impaziente: vuol sapere esattamente come si dice coglione e come si pronuncia, e c’è perfino chi – ex prof di spagnolo, almeno credo – si addentra nella comparazione con l’idioma iberico. Una babele di peni, vagine, testicoli, prostitute e chi più ne ha più ne metta. Insomma, la frittata è fatta.
Immaginate perciò l’imbarazzo del vostro umile e affezionatissimo insegnante: rigorosamente in piedi, spalle alla lavagna e in mano pennarello e cimosa (non è proprio una cimosa, ma vabbè, rende l’idea), costretto – causa pronunce esilaranti – a scrivere le parole una per una, con tanto di accento sottolineato. Ed è in quell’istante che accade qualcosa di assolutamente imprevisto: mentre scrivi bello in grande TESTA DI CAZZO (con tanto di accento sulla a di cazzo) provi una sensazione strana. È come se la distanza spazio-temporale risultasse improvvisamente annullata. Malgrado gli oltre mille chilometri che ti separano dalla tua città natale e gli oltre vent’anni trascorsi dall’epoca delle elementari, ti ritrovi a stendere un bel VAFFANCULO (con accento sulla u, mi raccomando), come se la lavagna fosse diventata di colpo – chessò – la porta del cesso della scuola. Te ne accorgi dalla fretta di cancellare le scritte, nonostante ciò, in realtà, non presenti alcun rischio: per gli studenti quelle parole non rappresentano granché (hanno afferrato il significato, ma non la catartica musicalità insita nel pronunciarle), per la bidella addirittura anche meno, dato che non studia italiano. Quello che a loro manca, cioè, è l’infantile fascino del divieto. Di conseguenza, incitato dai sessantenni ululanti di gioia – ad eccezione di una signora timorata di dio che finge di scandalizzarsi – puoi dar sfogo all’incontrollabile pulsione di scrivere qualsiasi cosa ti venga in mente. Sei ritornato ai tuoi dieci anni, sei di nuovo a casa. La parolaccia è uno stargate.
Quando, infine, credi di aver soddisfatto ogni sorta di curiosità – comprese, ehm, spiegazioni anatomiche piuttosto dettagliate che per fortuna non sfociano in traduzioni di pratiche sessuali vere e proprie – sei convinto di attraversare la porta dall’altra parte e che stai tornando al 2012, all’Abruzzo ed al contegno che il tuo ruolo di insegnante ti impone. Eppure, come detto in precedenza, le insidie sono sempre dietro l’angolo: inoltre se c’è un caso in cui esiste il tanto decantato effetto domino, bè eccovelo qua. Un attimo prima di riabbracciare i confetti di Sulmona una studentessa, dalle lontani origini italiane, si fa tutta seria e domanda un chiarimento. Si tratta del significato di un’espressione che “pronunciava sempre mia nonna”. “Di dov’era tua nonna?” “Vicino a Piacenza” Ah ecco – pensi tu, povero ingenuo che non sei altro – l'antica cultura contadina dell’Emilia. “E che cosa diceva tua nonna?”. Questo (perdipiù con accento francese).
A quel punto cala il sipario. E cominciano gli applausi

giovedì 14 giugno 2012

Opinioni Chiare

Primo sondaggio della nuova era per il blog più amato dagli entomologi di Sassari e dintorni. Si trattava, molto semplicemente, della fatidica domanda "Quando durerà stavolta la riapertura della Tana del Grillo?" Un argomento di stretta attualità, dunque, dato che ne andava del futuro della testata. La partecipazione alle urne è stata soddisfacente - anche se, non ve lo neghiamo, vi attendiamo sempre più numerosi. L'esito, invece, è risultato sgombro (nel senso di pisero) da ogni dubbio di sorta: secondo il parere degli affezionati utenti, La Tana del Grillo avrà una (nuova) vita per almeno un paio di mesi, un po' come alcuni simpatici insetti, più o meno fino al consueto Campari di mezzanotte nell'altrettanto consueto bar in cui la lunghezza della fila per andare al cesso è proporzionale al rischio di far scoppiare inavvertitamente una rissa (giuriamo, ma sappiamo che non avete difficoltà a crederlo). Da li' in poi, se saremo sopravvissuti, si vedrà. Eccovi comunque i dettagli, ladies and gentlemen:
  1. Fino al 21/12/2012 (compreso) (14%)
  2. Finché morte non ci separi (7%)
  3. 9"58 (7%)
  4. Un paio di 0.40 bionde con 40° all'ombra  (0)
  5. Finza a candu no tengu tuttu gantu mi iffozzu  (21%)
  6. Fino a che non saranno entrati tutti a Santa Maria  (50%)

venerdì 8 giugno 2012

Game, Set, Match

Alcuni mesi fa il sottoscritto, stufo della propria decennale inattività e ansioso di tenersi in forma in vista del più importante evento annuale (l'estiva Zentrum League con la maglia number 29 dei Pizzinni d'Andera) ha preso una decisione irrevocabile: quella di iscriversi presso un locale club tennistico. Competizione vera, insomma. Con tanto di affiliazione automatica alla Federazione Francese (nel senso: paghi la tua quota di iscrizione e ne fai parte), il che è quasi come appartenere alla legione straniera
Una volta passati dalle parole ai fatti il tutto, pur divertente, è assai meno epico di quanto si creda. Vero che si entra a far parte della classifica nazionale - miao - e che si fanno i tornei (ovvero punti in palio, perfino soldi per chi riesce ad andare fino in fondo, oppure buoni sconto nei negozi specializzati. Se ve lo state chiedendo: io ancora non ho vinto un cazzo di nulla) ma è anche vero che la maggior parte degli avversari risultano né più né meno dei disgraziati proprio come te - sebbene, incredibile a dirsi, siano in classifica - oppure pensionati (pure loro in classifica, sic!) o semplicemente gente che, come si dice da queste parti, non c'è buona. Ma è in classifica. Poi, quando hai superato tutti questi, ci sono quelli buoni ed ecco che il tuo torneo è già finito.
E comunque. Gli iscritti alla Federazione - disgraziati e non - godono del privilegio di poter acquistare anticipatamente i biglietti relativi alle principali manifestazioni tennistiche nazionali. Eh sì, avete capito già tutto. Del resto, il lato positivo di abitare qui è che, se da un lato sei davvero in culo ai lupi, dall'altro sei sostanzialmente equidistante da altrettanti lupi e da altrettanti culi. Quindi, domenica scorsa, pranzo al sacco (letteralmente) e rotta verso Parigi in auto, chè tanto è domenica e i parcheggi son gratis, no? Il complesso del Roland Garros si trova in pratica a Bois de Boulogne, cioè bisogna attraversare il sedicesimo, abitato - com'è noto - da poveracci. Il parcheggio è effettivamente gratis, però ci vuole un'ora buona per raggiungerlo sgusciando attraverso le Mercedes disseminate dappertutto, bestemmiare contro il traffico e i parigini bastardi, e finalmente poter tirare il freno a mano. A quel punto hai girato talmente tanto che hai la sensazione di aver sconfinato in Belgio.
Quando compri il biglietto lo fai con un certo anticipo (cioè febbraio), perciò fino alla sera prima non saprai a quali match assisterai. Percentuali di inculata piuttosto alte, per intenderci, visto poi il rischio pioggia - con tanto di tempesta tropicale lungo l'autostrada a rendere il rischio ormai una certezza. E invece, a bestemmie già in corso, un cazzo, neanche una goccia. Il programma: due singolari femminili e due maschili. Il primo manco lo vediamo, siamo ancora al parcheggio. Il secondo prevede la n.1 mondiale, la Azarenka, perdere contro la simpatica n.16, per la quale ovviamente facciamo un tifo da stadio. Il terzo prevede Mr. Federer - mica pizza e fichi - contro un ragazzino belga emozionatissimo che pare troppo magro per i suoi vestiti eccessivamente larghi. Last but not least (infatti terminerà l'indomani), nel quarto incontro si sfidano i due fabbri Del Potro e Berdych.
Impressioni? (nb: da qui in poi se del tennis non ve ne frega una mazza, potete cambiare sito). Innanzitutto, sembra tutto molto più piccolo di quanto si possa immaginare, considerando che si tratta pur sempre del secondo campo in ordine gerarchico, non il decimo. Il giorno dopo alla tv giunge puntuale la conferma, perché le stesse tribune del Suzanne Lenglen paiono enormi. Due: l'impatto che la superficie ha sul gioco è qualcosa di totalmente alieno allo schermo televisivo. I colpi sono visibilmente attutiti, si gioca intorno alla palla, si scivola sulla terra. Lo so, lo so, sono cose che sapete già. Come che qua, più della potenza contano più - in teoria: molto in teoria - la rapidità e la resistenza. Poi vedi Del Potro e Berdych che giocano a chi ce l'ha più lungo e dici: e sul cemento indoor, con la palla che schizza, come fai a vederla? Allo stesso tempo, osservi lo zio Roger e capisci perché ha vinto 16 titoli dello Slam, nonostante la sua, di palla, non viaggi minimamente alla velocità dei due bruti citati in precedenza - e c'è di peggio, nel circuito. Il perché? Non ti gioca mai una palla uguale all'altra, usa ogni possibile tipo di taglio, di variazione e di ritmo, copre perfettamente tutto il campo, i suoi servizi sono praticamente illeggibili (questa è stata la cosa più impressionante, soprattutto a velocità ridotte). E dire che non era certo nella sua miglior giornata: troppo vento, tanti errori, poca strategia contro un avversario (piuttosto bravino) che non conosceva, condizione fisica non al top.
A fine giornata, mentre Del Potro e Berdych sono lì che se lo stanno ancora misurando col righello (per la cronaca, evidentemente madre natura è stata più generosa con l'argentino: del resto arrivava con la testa alla parte alta della scritta BNP PARIBAS sui teloni di fondo), te ne vai tutto quanto. Te ne vai contento. Non sai che ti aspettano: un'altra ora per uscire da Parigi, raffiche di bestemmie, un altro uragano in autostrada e, soprattutto, un'improvvisa ondata di insicurezza al pensiero di dover di nuovo impugnare la racchetta per affrontare il pensionato di turno. 

sabato 2 giugno 2012

Prove tènniche di trasmissione

Ebbene sì, siamo tornati. Ne è passato, di tempo. Da quasi un anno La Tana del Grillo era letteralmente sparita dai vostri radar. Niente più epici resoconti di partite, niente più sondaggi, niente raffiche di stronzate. Niente di niente. Ora, ci piacerebbe mostrarvi le mail dei milioni di lettori che, durante la nostra assenza, ci hanno implorato di tornare. O le immagini del pueblo unido sceso in piazza a manifestare sotto la bandiera di Via Carmelo. Scioperi della fame, bonzi che si danno fuoco. Ci piacerebbe molto. La realtà è che non è successo assolutamente un cazzo di tutto questo. Dice: ma non avrebbe dovuto essere proprio questo, questo silenzio assordante, a farvi capire che ormai era giunto il momento di tacere, e per sempre? Tutt'altro. Anzi, esattamente il contrario. Il motivo è assai semplice: visto che comunque ce ne saremmo sbattuti allegramente di qualsiasi tipo di rivendicazione da parte del pubblico, abbiamo atteso il giusto allineamento planetario prima di prendere una decisione. L'esito della riunione del direttivo (un'operazione sempre piuttosto complessa da mettere in atto, dato il numero dei partecipanti) lo state leggendo proprio adesso. Rieccoci, dunque. Una nuova Tana del Grillo con tanto arrosto ma anche - come da tradizione - con tanto fumo. Spazio ai sondaggi, alle storie più o meno inventate, agli insulti, ai commenti degli utenti senza peli sulla lingua. Niente più post copia-e-incolla, che tanto per quello ci sono i più consueti socialnètuorc e sono tutti in agguato a chi posta per primo. Solo roba genuina, senza additivi né conservanti. La domanda, a questo punto, è scontata - dal momento che si tratta almeno della terza o quarta volta che annunciamo la ripresa a pieno regime per poi puntualmente eclissarci dopo qualche giorno. Cos'è cambiato, rispetto ad allora? Ora possiamo finalmente rivelarlo: un autentico cazzo. Potrebbe finire come al solito, oppure no. Noi ancora non lo sappiamo. Voi, invece, avete a disposizione perfino un sondaggio per farci sapere che ne pensate. Buona camicia a tutti.