mercoledì 12 dicembre 2012

La prossima la giochiamo a New Orleans

Quando – circa un paio di mesi fa – sono venuto a sapere che la Dinamo avrebbe giocato in Eurocup a Orléans non ho esitato neppure per un secondo. Orléans dista da qui circa due ore e mezza, un lasso di tempo di fronte al quale anni fa avrei risposto "col cazzo"; invece, sarà perché negli ultimi due anni la Dinamo l'ho vista solo sottoforma di play-to-play, sarà perché mi sono abituato alle lunghe distanze, insomma Orléans mi è parsa immediatamente una tappa obbligata. Ne sono cambiate di cose, in questi due anni, e non soltanto per il vostro umile e affezionatissimo blogger: la Dinamo – che ai miei tempi regalava domeniche pomeriggio sbadiglianti e post-alcooliche in LegaDue contro Scafati, Osimo o Fabriano, con il Palazzetto che mostrava un entusiasmo piuttosto contenuto – è nel frattempo salita nella massima serie. Non solo: ha fatto i playoff. Ah no, è arrivata alle semifinali dei playoff. Anzi, si è addirittura qualificata per l'Eurocup. E adesso tutti a Sassari seguono la Dinamo, e al Palazzetto non ci sta più neanche uno spillo.
A me 'sta cosa – a ripensarci – sembra ancora una specie di scherzo perenne, in atto a mia insaputa da un biennio – eppure è tutto vero. Ne parlavo tempo fa con l'amico Ignorant Shooter, testimone anche lui dei Grappasonni di turno e delle basette allegre di coach Bernardi: esattamente come me, pure lui segue ora queste vicende da lontano, in un clima di comica incredulità. Ci siamo detti che eravamo noi, a portar sfiga, e finora nessuno si è preso la briga di smentirci.
Detto questo, l'emozione di seguire la squadra della tua città quando vivi all'estero non puoi negartela, fanculo le due ore e mezza di macchina. Fanculo anche il lavoro, gli spostamenti, i camion in autostrada, il traffico, il non trovare il palasport nemmeno con googlemaps, le bestemmie contro Giovanna d'Arco, i "cazzo non c'è parcheggio da nessuna parte": le due ore e mezza diventano quasi quattro.
Giungiamo a destinazione in pratica alla palla a due e con lo stogamo brontolante. Per fortuna che, essendo in possesso di accredito stampa non dobbiamo fare la fila, o meglio entriamo da un ingresso secondario dove c'è scritto una roba tipo "stampa" ma anche "vip". Quindi veniamo accolti come i Re Magi e condotti letteralmente sul parquet: al tavolo ci dicono "no, non qua, lassù", ed infatti la tribuna stampa ci attende, con il suo posto riservato. L'accredito al collo suscita la curiosità degli educatissimi spettatori: li sento mormorare "oh, hanno mandato i giornalisti italiani", cosa che mi fa morire dalle risate ma si vede che quelli non prendono mica per il culo, sono lusingati. Allora sfodero una faccia seria e professionale e ripenso a quando, non lontano da Parigi, mi invitano ad una rassegna nella mediateca cittadina e vengo presentato (nonostante il mio curriculum) come "Professore di Letteratura (quale?) all'Università della (!) Sardegna". Parole come macigni (nessuno ha idea di cosa sia in realtà la Sardegna: una città, una nazione, un dipartimento, una corrente filosofica) che producono un "ooooh" di rispettosa approvazione dalle file in fondo.
Anche a Orléans sono molto gentili e si affrettano a darti spiegazioni di ogni tipo perché pensano che tu sia venuto fin li da Sassari per seguire la partita quindi sicuramente sarai un po' stanco: non si rendono nemmeno conto che gli parlo in francese, rispondono in inglese per educazione. Ad ogni modo, la partita è uno spettacolo indegno. A parte che il pubblico (scarso) ha un'età media di settant'anni, con le ovvie conseguenze sul pathos dato all'evento, la Dinamo gioca in maniera ridicola e giustamente perde. Io, che ci devo scrivere un articolo, sono piuttosto distratto: all'inizio non ho internet, poi ce l'ho ma la password è un geroglifico, poi è l'intervallo e mi dedico al sandwich di subway sbrodolando dappertutto, infine rialzo la testa ed è tutto finito. Devo confessare una certa delusione: me l'aspettavo diversa, questa Dinamo in Francia. Forse perché manca il tifo – e dentro di me sognavo di esultare in solitaria zittendo i supporters locali in dialetto turritano – ma soprattutto perché quando perdi di 15 hai ben poco da esultare. La sensazione è che tutto sia troppo anonimo per essere ad oltre 1000 km da Sassari, pero' la colpa probabilmente è tua.
Alla fine mando il pezzo, accetto i pasticcini gentilmente offerti dall'addetto stampa e mi sparo pure le interviste – deliranti per colpa delle traduzioni simultanee. Tuttavia, quando ritroviamo la macchina senza multa mi dico che poteva andare peggio e ritrovo il sorriso. Ipse dixit: a 20 km da Orléans facciamo sosta per mettere benzina ma la macchina non parte più. Manco a spinta (si scoprirà essere colpa del motorino d'avviamento). È quasi mezzanotte, siamo stanchi morti, in culo ai lupi e, come se non bastasse, la Dinamo ha perso. Tutte le peggiori bestemmie da stadio, che non ho potuto utilizzare al palasport, tornano di attualità. Che fare? Meno male che l'assicurazione ci regala un passaggio col carroattrezzi fino al garage, un luogo ideale per un omicidio, poi addirittura il taxi fino a casa. Il bello è che non bisogna sborsare manco un centesimo. Si parte. C'è una nebbia che non si vede veramente un cazzo di nulla ed il tassista è di quelli simpatici che non smettono di parlare un nanosecondo. Giungiamo a Limoges, fra una balla e l'altra, verso le 3 del manzano: il tassametro segna circa 360 euro e mi viene istintivamente da sgranare gli occhi. Un finale del genere, mi dico, rende tutto più epico. Perfino una sconfitta.       

martedì 20 novembre 2012

Attacco l'Alsazia con dieci armate!

Non dite che non vi avevamo avvisato: mantenere in vita questo blog non è affar semplice. Ora, ad esempio, ho giusto il tempo di usare il defibrillatore e vedere un po' che cosa ne è rimasto. Per darvi un'idea: questo post è stato inizialmente concepito un paio di settimane fa, e vede la luce solo adesso. Le due settimane fa coincidevano con il rientro dall'esplorazione della Francia orientale, ovvero oltre 2000 km di bontà in olio d'oliva. Eh già, perché ce lo siamo fatti en voiture, il giretto, con tanto di sconfinamenti e pranzi al sacco come nella miglior tradizione della Tana. Inutile percio' stare ad elencarvi pedantamente itinerari, menù, andamento delle temperature. In sintesi: tutto piuttosto bello, tutto piuttosto buono, un freddo da bazzi. Ecco allora le dieci cose dieci da ricordare – non necessariamente le migliori – del recente viaggetto in Alsazia e dintorni. Pronti, via:

1. Poco dopo la scoppiettante Auxerre (pieno centro deserto di sabato pomeriggio: la visione di un camioncino che faceva le crêpes è parsa inizialmente un miraggio), un inatteso regalo propostoci dal percorso: in una tanca di fèrula nel bel mezzo della campagna abbiamo avvistato un cartello con annesso indiscutibile logo, PIZZERIA BATMAN. Il bello è che son riuscito poi a trovarlo in qualche modo anche in rete, peccato non ci sia il sito ufficiale con il menù perché secondo me merita.

2. Il benvenuto in Germania – dove non ci sono limiti di velocità, tranne che in alcuni tratti – ci è stato dato da un tizio in autobahn. Non appena abbiamo messo piede (o per meglio dire, ruota) sul suolo teutonico siamo stati sorpassati da un'auto che andava di certo ad oltre 200 km/h. È stato come vedere avvicinarsi un meteorite nello specchietto retrovisore. Dice: e che macchina era? E chi cazzo l'ha vista? Era bianca.

3. Non ho assolutamente idea del perché, ma quando facevamo colazione negli hotel la mattina – momento notoriamente fra i migliori di ogni viaggio che si rispetti – ogni volta c'erano delle giovani famiglie spagnole, o sudamericane, insomma parlavano spagnolo. Aria simpatica ma un tantino a disagio, tortillas individuate col radar e, soprattutto, la tuta. Padre, madre e possibilmente anche figlio piccolo, tutti in processione come matrioske con le loro belle tute in acetato (!).

4. A Strasburgo (a proposito: a parere di chi vi scrive più bella città di Francia dopo la capitale), abbiamo trovato una trattoria dall'aspetto invitante e sufficientemente croccante nel cuore del centro storico. I pochi dubbi sulla qualità della cucina sono stati spazzati via dal vecchietto nel tavolo di legno accanto, che si è addormentato durante la degustazione del suo brasato di cervo con porcini. Un secondo dopo, abbiamo ordinato. Alla fine il vecchietto si è risvegliato e si è portato via il suo quartino di rosso.

5. Sempre a Strasburgo ci è capitato di visitare una chiesa dalla storia intrigante (ce ne sono due che portano lo stesso nome ma la prima originale era protestante mentre questa è cattolica) e una vecchietta – non pensiate che siano tutti vecchi a Strasburgo, anzi – ci ha accolto in qualità di "guida" per raccontarci le varie vicende che hanno portato alla sua costruzione. Rivolgendosi alla mia dolce metà ad un certo punto ha detto "ah ma lei forse non capisce il francese." Ovviamente ha proseguito il suo monologo turistico-religioso con me, che a quel punto non ho aperto bocca manco per sbaglio.

6. In Alsazia – immagino a causa delle temperature intrattabili – quando entri in un ristorante, trattoria, taverna, ovunque, ci sono delle enormi tende che separano la porta d'ingresso dalla sala vera e propria e dunque mantengono caldo l'interno. Il bello è che in alcuni casi (diciamo nei luoghi più promiscui) per districarti finisci quasi per gettare il bordo delle tende nella zuppa dei clienti più disgraziati, capitati sfortunatamente vicino all'uscita. Come se già non bastasse il freddo.

7. A Colmar, cittadina peraltro bellissima, siamo arrivati verso le sette di sera e non c'era un cane in giro. Negozi chiusi, illuminazione inesistente, grossi punti di domanda sul perché cazzo non ce ne siamo rimasti a Strasburgo. A coronamento dei dubbi uno stormo di corvi – apparentemente gli unici esseri viventi nel raggio di svariati metri – ha cominciato a gracchiare. Ci siam detti: troviamo un ristorante e boh. Mi è venuta un po' meno fretta quando ho iniziato il mio baeckeoffe.

8. Ancora le stranezze di Colmar. Da queste parti il colmarien più famoso a tutt'oggi è Bartholdi, il cui nome lo si ritrova un po' dappertutto come il prezzemolo. Tanto per omaggiare il loro celebre concittadino a Colmar hanno edificato una riproduzione della Statua della Libertà. Dove l'hanno messa? L'hanno strategicamente collocata in una rotatoria in piena zona industriale, fra un caseggiato e l'altro all'ingresso della città. La prima reazione è chiedersi dove cazzo si è finiti. Chissà perché ma mi sono immaginato un enorme candeliere in una qualunque zona di Predda Niedda: ecco, nonostante tutto forse perfino il candeliere sarebbe meno brutto.

9. Magica Colmar. Prima di partire abbiamo fatto un meritato pit-stop al supermercato, Leclerc, ovvero lo stesso che frequentiamo qui a Limoges. In questo luogo meraviglioso – che ci consente oltretutto l'acquisto di una bottiglia di Cynar, oggetto la cui ricerca stava diventando una sorta di tentativo di conquista del Sacro Graal – abbiamo notato che il reparto alcolici è qualcosa come il triplo (anche in proporzione agli altri reparti) rispetto a quello che vediamo abitualmente. Poi ho alzato lo sguardo ed ho visto i volti rubizzi dei clienti. Una fazza una razza.

10. Mossa finale da campioni, ancora nel suddetto supermercato: non paghi del Cynar, del Riesling, nonché di altre puttanate varie, abbiamo optato per l'acquisto del Munster, un formaggio dall'odore inconfondibile che successivamente ci allieta per i quasi settecento chilometri che ci separano da casa. La sistemazione nel bagagliaio – con tanto di buste, casse, frasche e sterpaglia – non neutralizzerà gli effluvi manco per il cazzo, cosicché ogni qual volta bisogna fare una pausa si aprono le portiere ben consci del pericolo. Pero' è talmente buono che, piuttosto che gettarlo via, abbiamo tenuto il respiro.

mercoledì 24 ottobre 2012

Chilometro Zero

Con la pubblicazione delle classifiche (cosa che accade due volte l'anno: a giugno ed in ottobre, quando il sito della federazione è talmente intasato da non risultare accessibile) la stagione tennistica torna - diciamo pure prepotentemente - di attualità.
Dopo un'estate di battaglie pomeridiane con 35° o peggio, si riprende a giocare sul duro, al chiuso e a dispensare bestemmie in diretta, che tanto qua nessuno ci capisce niente. Tennis sport da ricchi, direte voi. Mica tanto: con un centinaio d'euro sono un signore per tutto l'anno e quello che pago il più delle volte è solo la classica birretta post-partita (a tale proposito la scoperta della consumazione gratuita durante i match a squadre fra diversi club – che si svolgono di norma la domenica mattina e spesso piove, o c'è nebbia o comunque fa un tempo di merda – è stata accolta la prima volta con un'autentica ovazione, tipo ola). Una specie di free-drink tennistico, insomma, ad esclusione dei vari tornei, il cui prezzo – va detto con rammarico – resta spesso inferiore a due ore di tennis nei soleggiati campi turritani. E le palle (mai più di quattro) sono fornite dal club. Non che qui sia tutto perfetto, ovviamente: basta partecipare a qualche competizione ufficiale per farsene un'idea. Una volta, durante un torneo nelle vicinanze (vicinanze nel senso 10 minuti a piedi da casa) mi hanno piazzato gli incontri rigorosamente alle 15 nonostante temperature adatte soltanto ai rettili. Di ombrelloni manco a parlarne; abbiamo spostato le sedie di plastica a ridosso di una siepe, quel tanto che bastava per ottenere un po' d'ombra e per sentire in sottofondo il rilassante gorgoglio della piscina alle nostre spalle. Il risultato è stato che un giorno, dopo un'oretta circa, ho cominciato a non sentire più le gambe a capire che ero pronto a vomitare. Ho chiesto una sosta per andare in bagno, dove mi sono bagnato la faccia; guardandomi allo specchio mi son detto che una volta uscito avrei comunicato l'abbandono al mio avversario (anche se stavo vincendo nettamente). Pochi secondi dopo il tizio – che fino a cinque minuti prima era impeccabile e non sudava neppure – mi stringe la mano e mi dice "non ce la faccio più, ho voglia di vomitare". Vittoria per ritiro.
In un altro torneo, in un paesino qua vicino, ho esordito nel gironcino all'italiana – cosa normale ai primi turni – in un campo in mateco, all'aperto. Il giorno dopo diluviava e ci hanno spostato all'interno. Il campo? In erba. Il terzo giorno era ritornato il sole ma per misteriose questioni di orari accavallati non c'era più posto.
Ci hanno spediti su un campo in greenset; peccato che fosse in un altro club a quasi 10 km dal luogo previsto originariamente. Preferisco non aggiungere dettagli sulle sedie degli arbitri piene di ragnatele. Ora, sono giusto degli esempi, a prescindere dagli indiscutibili vantaggi pecuniari rispetto al loco natìo. Tuttavia, è stato proprio durante l'estate appena trascorsa che mi è capitato qualcosa di significativo a riguardo. In seguito a ripetuti esborsi di dollari nei più prestigiosi club sassaresi, abbiamo deciso di spendere meno e di testare i cari vecchi campi del Chilometro. Non sapendo come funzionavano le cose – io ci avevo già giocato, però parecchi anni addietro – abbiamo chiesto se bisognasse pagare prima o dopo la partita. Il gentleman che gestisce la baracca (cioè che gestisce soprattutto il bar), senza neppure dire ciao, ci domanda: "lo sapete chi è che vuol essere pagato in anticipo?". Sguardi attoniti, silenzio di tomba. "Le bagasse" è la risposta. È stato in quel preciso istante che ho capito perché a Sassari i campi da tennis costano quel qualcosina in più.