mercoledì 24 ottobre 2012

Chilometro Zero

Con la pubblicazione delle classifiche (cosa che accade due volte l'anno: a giugno ed in ottobre, quando il sito della federazione è talmente intasato da non risultare accessibile) la stagione tennistica torna - diciamo pure prepotentemente - di attualità.
Dopo un'estate di battaglie pomeridiane con 35° o peggio, si riprende a giocare sul duro, al chiuso e a dispensare bestemmie in diretta, che tanto qua nessuno ci capisce niente. Tennis sport da ricchi, direte voi. Mica tanto: con un centinaio d'euro sono un signore per tutto l'anno e quello che pago il più delle volte è solo la classica birretta post-partita (a tale proposito la scoperta della consumazione gratuita durante i match a squadre fra diversi club – che si svolgono di norma la domenica mattina e spesso piove, o c'è nebbia o comunque fa un tempo di merda – è stata accolta la prima volta con un'autentica ovazione, tipo ola). Una specie di free-drink tennistico, insomma, ad esclusione dei vari tornei, il cui prezzo – va detto con rammarico – resta spesso inferiore a due ore di tennis nei soleggiati campi turritani. E le palle (mai più di quattro) sono fornite dal club. Non che qui sia tutto perfetto, ovviamente: basta partecipare a qualche competizione ufficiale per farsene un'idea. Una volta, durante un torneo nelle vicinanze (vicinanze nel senso 10 minuti a piedi da casa) mi hanno piazzato gli incontri rigorosamente alle 15 nonostante temperature adatte soltanto ai rettili. Di ombrelloni manco a parlarne; abbiamo spostato le sedie di plastica a ridosso di una siepe, quel tanto che bastava per ottenere un po' d'ombra e per sentire in sottofondo il rilassante gorgoglio della piscina alle nostre spalle. Il risultato è stato che un giorno, dopo un'oretta circa, ho cominciato a non sentire più le gambe a capire che ero pronto a vomitare. Ho chiesto una sosta per andare in bagno, dove mi sono bagnato la faccia; guardandomi allo specchio mi son detto che una volta uscito avrei comunicato l'abbandono al mio avversario (anche se stavo vincendo nettamente). Pochi secondi dopo il tizio – che fino a cinque minuti prima era impeccabile e non sudava neppure – mi stringe la mano e mi dice "non ce la faccio più, ho voglia di vomitare". Vittoria per ritiro.
In un altro torneo, in un paesino qua vicino, ho esordito nel gironcino all'italiana – cosa normale ai primi turni – in un campo in mateco, all'aperto. Il giorno dopo diluviava e ci hanno spostato all'interno. Il campo? In erba. Il terzo giorno era ritornato il sole ma per misteriose questioni di orari accavallati non c'era più posto.
Ci hanno spediti su un campo in greenset; peccato che fosse in un altro club a quasi 10 km dal luogo previsto originariamente. Preferisco non aggiungere dettagli sulle sedie degli arbitri piene di ragnatele. Ora, sono giusto degli esempi, a prescindere dagli indiscutibili vantaggi pecuniari rispetto al loco natìo. Tuttavia, è stato proprio durante l'estate appena trascorsa che mi è capitato qualcosa di significativo a riguardo. In seguito a ripetuti esborsi di dollari nei più prestigiosi club sassaresi, abbiamo deciso di spendere meno e di testare i cari vecchi campi del Chilometro. Non sapendo come funzionavano le cose – io ci avevo già giocato, però parecchi anni addietro – abbiamo chiesto se bisognasse pagare prima o dopo la partita. Il gentleman che gestisce la baracca (cioè che gestisce soprattutto il bar), senza neppure dire ciao, ci domanda: "lo sapete chi è che vuol essere pagato in anticipo?". Sguardi attoniti, silenzio di tomba. "Le bagasse" è la risposta. È stato in quel preciso istante che ho capito perché a Sassari i campi da tennis costano quel qualcosina in più.

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