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mercoledì 24 ottobre 2012

Chilometro Zero

Con la pubblicazione delle classifiche (cosa che accade due volte l'anno: a giugno ed in ottobre, quando il sito della federazione è talmente intasato da non risultare accessibile) la stagione tennistica torna - diciamo pure prepotentemente - di attualità.
Dopo un'estate di battaglie pomeridiane con 35° o peggio, si riprende a giocare sul duro, al chiuso e a dispensare bestemmie in diretta, che tanto qua nessuno ci capisce niente. Tennis sport da ricchi, direte voi. Mica tanto: con un centinaio d'euro sono un signore per tutto l'anno e quello che pago il più delle volte è solo la classica birretta post-partita (a tale proposito la scoperta della consumazione gratuita durante i match a squadre fra diversi club – che si svolgono di norma la domenica mattina e spesso piove, o c'è nebbia o comunque fa un tempo di merda – è stata accolta la prima volta con un'autentica ovazione, tipo ola). Una specie di free-drink tennistico, insomma, ad esclusione dei vari tornei, il cui prezzo – va detto con rammarico – resta spesso inferiore a due ore di tennis nei soleggiati campi turritani. E le palle (mai più di quattro) sono fornite dal club. Non che qui sia tutto perfetto, ovviamente: basta partecipare a qualche competizione ufficiale per farsene un'idea. Una volta, durante un torneo nelle vicinanze (vicinanze nel senso 10 minuti a piedi da casa) mi hanno piazzato gli incontri rigorosamente alle 15 nonostante temperature adatte soltanto ai rettili. Di ombrelloni manco a parlarne; abbiamo spostato le sedie di plastica a ridosso di una siepe, quel tanto che bastava per ottenere un po' d'ombra e per sentire in sottofondo il rilassante gorgoglio della piscina alle nostre spalle. Il risultato è stato che un giorno, dopo un'oretta circa, ho cominciato a non sentire più le gambe a capire che ero pronto a vomitare. Ho chiesto una sosta per andare in bagno, dove mi sono bagnato la faccia; guardandomi allo specchio mi son detto che una volta uscito avrei comunicato l'abbandono al mio avversario (anche se stavo vincendo nettamente). Pochi secondi dopo il tizio – che fino a cinque minuti prima era impeccabile e non sudava neppure – mi stringe la mano e mi dice "non ce la faccio più, ho voglia di vomitare". Vittoria per ritiro.
In un altro torneo, in un paesino qua vicino, ho esordito nel gironcino all'italiana – cosa normale ai primi turni – in un campo in mateco, all'aperto. Il giorno dopo diluviava e ci hanno spostato all'interno. Il campo? In erba. Il terzo giorno era ritornato il sole ma per misteriose questioni di orari accavallati non c'era più posto.
Ci hanno spediti su un campo in greenset; peccato che fosse in un altro club a quasi 10 km dal luogo previsto originariamente. Preferisco non aggiungere dettagli sulle sedie degli arbitri piene di ragnatele. Ora, sono giusto degli esempi, a prescindere dagli indiscutibili vantaggi pecuniari rispetto al loco natìo. Tuttavia, è stato proprio durante l'estate appena trascorsa che mi è capitato qualcosa di significativo a riguardo. In seguito a ripetuti esborsi di dollari nei più prestigiosi club sassaresi, abbiamo deciso di spendere meno e di testare i cari vecchi campi del Chilometro. Non sapendo come funzionavano le cose – io ci avevo già giocato, però parecchi anni addietro – abbiamo chiesto se bisognasse pagare prima o dopo la partita. Il gentleman che gestisce la baracca (cioè che gestisce soprattutto il bar), senza neppure dire ciao, ci domanda: "lo sapete chi è che vuol essere pagato in anticipo?". Sguardi attoniti, silenzio di tomba. "Le bagasse" è la risposta. È stato in quel preciso istante che ho capito perché a Sassari i campi da tennis costano quel qualcosina in più.

lunedì 23 luglio 2012

Cavoli A Merenda

Eravate lì col dito puntato, vero? Avevate già pronunciato le orazioni funebri? Stavate festeggiando? Bravi. Anche noi (nel rispetto della par condicio) replichiamo col dito puntato – quello medio, però. In un certo senso non avevate tutti i torti: la Tana nell’ultimo mese ha latitato, vuoi per mancanza di tempo, vuoi perché il rientro nell’Isola è coinciso con l’assenza di una connessione internet, vuoi per i cazzacci miei. Bisogna ammettere che si vive benissimo anche senza internet, ma gestire un blog – perfino un blog ridicolo come quello che avete attualmente sotto gli occhi – diventa un tantino complicato. Ora che abbiamo rimediato possiamo riprendere, come di consueto, a perdere tempo in rete; tuttavia possiamo pure raccontarvi una storiella che è in cantiere da un po’ e che abbiamo sempre rimandato a data da destinarsi. Narra del vostro blogger preferito che ha intrapreso la dorata carriera di insegnante d’italiano in terra straniera. E narra soprattutto delle insidie che tale mestiere propone, in particolar modo quando meno te lo aspetti. 
Il tutto nasce da una lezione come parecchie altre, incentrata su non so più quale regione italiana, mi sa che era l’Abruzzo. Per farla breve, il libro ne illustrava la produzione agricola, cosa che imponeva fin da subito una doverosa parentesi al fine di tradurre i nomi più gettonati: la melanzana, la zucchina, il cavolfiore, eccetera. Ad un certo punto, fra i protagonisti della parentesi compare il cavolo. Eccolo qui, il colpevole: il cavolo. Di sicuro vi chiederete quali pericoli possa celare il cavolo: li cela, li cela. Fidatevi. Probabilmente tutto sta nell’uso differente rispetto al francese dove – eh lo so che è strano, ma che cazzo ci volete fare? – il termine cavolo ("chou") può facilmente divenire un appellativo affettuoso, una specie di "tesoro". Bene, gli studenti a quel punto domandano, praticamente in coro: in italiano funziona allo stesso modo? Eh, manco per sogno. Ve lo immaginate? È necessario precisare che in italiano sarebbe alquanto ridicolo e che, anzi, cavolo è un’esclamazione dal sapore assai diverso. Ergo, spieghi loro che non è poi volgare, ma che da un punto di vista semantico il cavolo può essere sostituito da un’altra parolina magica, dalla connotazione anatomica (per la cronaca: in francese punteggiare la frase con il sesso maschile non ha alcun senso, dato che tale ruolo è svolto dal mestiere più antico del modo). Chiusa parentesi? Si torna alle carote ed ai confetti di Sulmona? State freschi.
Domande a raffica. Come si dice questo? E quest’altro? E quest’altro ancora? Divento un autentico bersaglio mobile, sebbene sia divertito dall’aver sprigionato una simile curiosità. Rispondo, da principio un po’ timidamente – forse a causa del divario generazionale. Poi capisco che il pubblico freme, sempre più impaziente: vuol sapere esattamente come si dice coglione e come si pronuncia, e c’è perfino chi – ex prof di spagnolo, almeno credo – si addentra nella comparazione con l’idioma iberico. Una babele di peni, vagine, testicoli, prostitute e chi più ne ha più ne metta. Insomma, la frittata è fatta.
Immaginate perciò l’imbarazzo del vostro umile e affezionatissimo insegnante: rigorosamente in piedi, spalle alla lavagna e in mano pennarello e cimosa (non è proprio una cimosa, ma vabbè, rende l’idea), costretto – causa pronunce esilaranti – a scrivere le parole una per una, con tanto di accento sottolineato. Ed è in quell’istante che accade qualcosa di assolutamente imprevisto: mentre scrivi bello in grande TESTA DI CAZZO (con tanto di accento sulla a di cazzo) provi una sensazione strana. È come se la distanza spazio-temporale risultasse improvvisamente annullata. Malgrado gli oltre mille chilometri che ti separano dalla tua città natale e gli oltre vent’anni trascorsi dall’epoca delle elementari, ti ritrovi a stendere un bel VAFFANCULO (con accento sulla u, mi raccomando), come se la lavagna fosse diventata di colpo – chessò – la porta del cesso della scuola. Te ne accorgi dalla fretta di cancellare le scritte, nonostante ciò, in realtà, non presenti alcun rischio: per gli studenti quelle parole non rappresentano granché (hanno afferrato il significato, ma non la catartica musicalità insita nel pronunciarle), per la bidella addirittura anche meno, dato che non studia italiano. Quello che a loro manca, cioè, è l’infantile fascino del divieto. Di conseguenza, incitato dai sessantenni ululanti di gioia – ad eccezione di una signora timorata di dio che finge di scandalizzarsi – puoi dar sfogo all’incontrollabile pulsione di scrivere qualsiasi cosa ti venga in mente. Sei ritornato ai tuoi dieci anni, sei di nuovo a casa. La parolaccia è uno stargate.
Quando, infine, credi di aver soddisfatto ogni sorta di curiosità – comprese, ehm, spiegazioni anatomiche piuttosto dettagliate che per fortuna non sfociano in traduzioni di pratiche sessuali vere e proprie – sei convinto di attraversare la porta dall’altra parte e che stai tornando al 2012, all’Abruzzo ed al contegno che il tuo ruolo di insegnante ti impone. Eppure, come detto in precedenza, le insidie sono sempre dietro l’angolo: inoltre se c’è un caso in cui esiste il tanto decantato effetto domino, bè eccovelo qua. Un attimo prima di riabbracciare i confetti di Sulmona una studentessa, dalle lontani origini italiane, si fa tutta seria e domanda un chiarimento. Si tratta del significato di un’espressione che “pronunciava sempre mia nonna”. “Di dov’era tua nonna?” “Vicino a Piacenza” Ah ecco – pensi tu, povero ingenuo che non sei altro – l'antica cultura contadina dell’Emilia. “E che cosa diceva tua nonna?”. Questo (perdipiù con accento francese).
A quel punto cala il sipario. E cominciano gli applausi

venerdì 8 giugno 2012

Game, Set, Match

Alcuni mesi fa il sottoscritto, stufo della propria decennale inattività e ansioso di tenersi in forma in vista del più importante evento annuale (l'estiva Zentrum League con la maglia number 29 dei Pizzinni d'Andera) ha preso una decisione irrevocabile: quella di iscriversi presso un locale club tennistico. Competizione vera, insomma. Con tanto di affiliazione automatica alla Federazione Francese (nel senso: paghi la tua quota di iscrizione e ne fai parte), il che è quasi come appartenere alla legione straniera
Una volta passati dalle parole ai fatti il tutto, pur divertente, è assai meno epico di quanto si creda. Vero che si entra a far parte della classifica nazionale - miao - e che si fanno i tornei (ovvero punti in palio, perfino soldi per chi riesce ad andare fino in fondo, oppure buoni sconto nei negozi specializzati. Se ve lo state chiedendo: io ancora non ho vinto un cazzo di nulla) ma è anche vero che la maggior parte degli avversari risultano né più né meno dei disgraziati proprio come te - sebbene, incredibile a dirsi, siano in classifica - oppure pensionati (pure loro in classifica, sic!) o semplicemente gente che, come si dice da queste parti, non c'è buona. Ma è in classifica. Poi, quando hai superato tutti questi, ci sono quelli buoni ed ecco che il tuo torneo è già finito.
E comunque. Gli iscritti alla Federazione - disgraziati e non - godono del privilegio di poter acquistare anticipatamente i biglietti relativi alle principali manifestazioni tennistiche nazionali. Eh sì, avete capito già tutto. Del resto, il lato positivo di abitare qui è che, se da un lato sei davvero in culo ai lupi, dall'altro sei sostanzialmente equidistante da altrettanti lupi e da altrettanti culi. Quindi, domenica scorsa, pranzo al sacco (letteralmente) e rotta verso Parigi in auto, chè tanto è domenica e i parcheggi son gratis, no? Il complesso del Roland Garros si trova in pratica a Bois de Boulogne, cioè bisogna attraversare il sedicesimo, abitato - com'è noto - da poveracci. Il parcheggio è effettivamente gratis, però ci vuole un'ora buona per raggiungerlo sgusciando attraverso le Mercedes disseminate dappertutto, bestemmiare contro il traffico e i parigini bastardi, e finalmente poter tirare il freno a mano. A quel punto hai girato talmente tanto che hai la sensazione di aver sconfinato in Belgio.
Quando compri il biglietto lo fai con un certo anticipo (cioè febbraio), perciò fino alla sera prima non saprai a quali match assisterai. Percentuali di inculata piuttosto alte, per intenderci, visto poi il rischio pioggia - con tanto di tempesta tropicale lungo l'autostrada a rendere il rischio ormai una certezza. E invece, a bestemmie già in corso, un cazzo, neanche una goccia. Il programma: due singolari femminili e due maschili. Il primo manco lo vediamo, siamo ancora al parcheggio. Il secondo prevede la n.1 mondiale, la Azarenka, perdere contro la simpatica n.16, per la quale ovviamente facciamo un tifo da stadio. Il terzo prevede Mr. Federer - mica pizza e fichi - contro un ragazzino belga emozionatissimo che pare troppo magro per i suoi vestiti eccessivamente larghi. Last but not least (infatti terminerà l'indomani), nel quarto incontro si sfidano i due fabbri Del Potro e Berdych.
Impressioni? (nb: da qui in poi se del tennis non ve ne frega una mazza, potete cambiare sito). Innanzitutto, sembra tutto molto più piccolo di quanto si possa immaginare, considerando che si tratta pur sempre del secondo campo in ordine gerarchico, non il decimo. Il giorno dopo alla tv giunge puntuale la conferma, perché le stesse tribune del Suzanne Lenglen paiono enormi. Due: l'impatto che la superficie ha sul gioco è qualcosa di totalmente alieno allo schermo televisivo. I colpi sono visibilmente attutiti, si gioca intorno alla palla, si scivola sulla terra. Lo so, lo so, sono cose che sapete già. Come che qua, più della potenza contano più - in teoria: molto in teoria - la rapidità e la resistenza. Poi vedi Del Potro e Berdych che giocano a chi ce l'ha più lungo e dici: e sul cemento indoor, con la palla che schizza, come fai a vederla? Allo stesso tempo, osservi lo zio Roger e capisci perché ha vinto 16 titoli dello Slam, nonostante la sua, di palla, non viaggi minimamente alla velocità dei due bruti citati in precedenza - e c'è di peggio, nel circuito. Il perché? Non ti gioca mai una palla uguale all'altra, usa ogni possibile tipo di taglio, di variazione e di ritmo, copre perfettamente tutto il campo, i suoi servizi sono praticamente illeggibili (questa è stata la cosa più impressionante, soprattutto a velocità ridotte). E dire che non era certo nella sua miglior giornata: troppo vento, tanti errori, poca strategia contro un avversario (piuttosto bravino) che non conosceva, condizione fisica non al top.
A fine giornata, mentre Del Potro e Berdych sono lì che se lo stanno ancora misurando col righello (per la cronaca, evidentemente madre natura è stata più generosa con l'argentino: del resto arrivava con la testa alla parte alta della scritta BNP PARIBAS sui teloni di fondo), te ne vai tutto quanto. Te ne vai contento. Non sai che ti aspettano: un'altra ora per uscire da Parigi, raffiche di bestemmie, un altro uragano in autostrada e, soprattutto, un'improvvisa ondata di insicurezza al pensiero di dover di nuovo impugnare la racchetta per affrontare il pensionato di turno. 

giovedì 9 giugno 2011

All These Places Have Their Moments

Congedata a malincuore la cara vecchia Dublin - come abbiamo anticipato nel post precedente - la nuova meta della Tana è dall'altra parte del Mare d'Irlanda. L'aereo che ci condurrà in quel di Liverpool è gremito da personaggi di dubbia sobrietà vestiti con la maglia di Rooney - quella del Manchester United, pero'. Affiorano dubbi amletici. Liverpool è adagiata su una sponda del gigantesco estuario del Mersey (non ci riesco a dire la Mersey, scusate): dall'altra parte del fiume, infatti, ci sono soprattutto ciminiere, fumo, grigio e qualcosa che dal finestrino sembrerebbe una specie di colata di fango. L'aeroporto di Liverpool è davvero speciale, non foss'altro perché si chiama John Lennon Airport, le cui pareti sono corredate da frasi provenienti da celebri canzoni di chi potete facilmente immaginare. La migliore (nonché la più adatta alle circostanze) è ovviamente "above us only sky". Oh yes, pensiamo. Appena saliti sul bus che ci porterà in centro un tizio dalla pancia enorme, l'impermeabilino rosso e la faccia di chi conosce ogni singolo anfratto del bancone, sale e chiede con tono gentile a tutti i presenti se siamo davvero sicuri di aver preso il bus giusto. Sgraniamo gli occhi. Poi quello ci saluta ancora più gentilmente ed il bus parte. Attraversiamo campagne piene di campi di cricket e di casette a mattoni rossi. Penny Lane è proprio da queste parti (ma non ci andremo), Strawberry Fields pure. Il centro corrisponde al cosiddetto Liverpool One, frutto di recenti lavori di bonifica,  ammodernamento e chi più ne ha più ne metta e che - ahinoi - è semplicemente una serie di vie in mezzo a palazzoni grigi farciti di centri commerciali colorati. E' domenica e 'sti cazzo di centri commerciali sono tutti aperti. Lo si capisce anche dal fatto che la gente passeggia con le buste in mano emanando una scia profumata di patatine fritte. Diciamocela tutta: l'impressione, dopo circa 15 minuti di camminata, è che Liverpool (si, sappiamo dei bombardamenti durante la Seconda Guerra Mondiale) sia un autentico cesso. Sconfortati, ci dirigiamo quindi verso l'Albert Dock, zona del porto a cui è stato rifatto il trucco ed ora è un viavai di turisti che vogliono visitare i vari musei, fra cui - manco a dirlo - il Beatles Story, di chioschi di gelati e di gabbiani. Il museo dedicato ai Fab Four è la sola ragione per cui ci troviamo qui, oltre al fatto che il biglietto aereo costava 5 euro e che lo scalo era necessario per tornare a casa. Se vi state immaginando chissà quale incredibile ingresso per entrare al museo (ve lo state immaginando? Dite di si'), be' avete sbagliato in pieno. L'edificio è - ma va? - a mattoni rossi e vi si accede con una piccola e discreta scalinata dello stesso colore. Prezzi non proprio popolari ma chi se ne frega. Anche qui, tutti gentilissimi. Sono le ultime ore di apertura e, oltre a noi, ci sono giusto alcuni turisti giapponesi. Audioguide e via. Se vi piacciono John, Paul, George e Ringo, andateci. Noi non siamo rimasti delusi. C'è la ricostruzione di qualunque cosa abbia a che fare coi Beatles, dagli strumenti alle locandine, ai locali e alle stradine in cui hanno cominciato la loro carriera (con tanto di topo finto). Si puo' fare un giro dentro allo Yellow Submarine oppure provare gli specchi psichedelici del Sgt. Pepper o ancora sedersi in aereo in attesa di compiere il primo tour negli USA. E si ascoltano le canzoni. A livello di gadget, poi, c'è tutto ed il contrario di tutto, basti pensare che nello shop del museo (all'uscita) è possibile acquistare il certificato di nascita (giuro) di Ringo Starr per circa 25 sterline, oltre ai più prevedibili occhialini di John Lennon ed a un milione di altre cazzate del genere. Rinfrancati dal Beatles Story usciamo a goderci (eufemismo) il resto della città. Premessa: ogni dieci minuti piove, a volte anche a catinelle. La cosa che ci colpisce - non scherziamo affatto - è che comunque Liverpool non sfrutti i Beatles come sarebbe stato lecito attendersi. Tanto per dare un'idea: a Dublino la Guinness è veramente dappertutto con le sue pinte ed i suoi tucani, a Liverpool i Beatles non sono altrettanto presenti. La città è proletaria e con un'anima poco incline al turismo (lo dimostra anche il nostro magnifico hotel, che in un'altra città avrebbe avuto un prezzo impossibile per le nostre tasche). Fatto sta che abbandoniamo l'Albert Dock e ci lasciamo guidare dalla vista dell'imponente cattedrale anglicana, apparentemente non troppo distante, che rappresenta un po' la nostra stella polare. In realtà camminiamo per mezz'ora e la cattedrale assume sempre più i contorni di un'oasi nel deserto, diventando ancora più lontana. Per orientarci utilizziamo la bellezza di un foglio di google maps stampato a Dublino ed una sorta di guida che abbiamo trovato qui. Giungiamo infine a ridosso della cattedrale (che in effetti è splendida), attraversiamo Chinatown e finiamo come per magia presso l'altra cattedrale, quella cattolica. Esausti e con istinti cannibaleschi, ci rendiamo conto che quel tanto decantato ristorante greco è esattamente di fronte. Inutile dirvi come va a finire. Il proprietario e la moglie (ciprioti, probabilmente) sono fantastici e stanno tutto il tempo a chiacchierare con noi di differenze culturali, di cucina e di cazzi loro con un improbabile accento british. Noi nel frattempo ci abbuffiamo di moussaka, di pita e di altre squisitezze. Non ce ne voglia Via Usai, ma qua è tutta un'altra storia. Ventre pieno e gambe in spalla, si continua verso nord-est, cioè in direzione del St. Georges Hall, del Liverpool Empire Theatre, dello splendido St.John's Garden. E' il tramonto e questa parte di Liverpool - più periferica ma molto più autentica - ci fa ricredere. Inoltre abbiamo un'aspetto talmente professional che una coppia di brasiliani ci ferma per chiedere indicazioni e scoprirà di dover andare dall'altra parte della città con le valigie in mano. Il rientro verso l'hotel è preceduto da lunga passeggiata lungo Victoria Street, passando per la mitica Mathew Street, e quindi di fronte al Cavern (paraculo come era facile immaginare). Sono le 10 di sera e ci sono i bar al piano terra con la musica anni ottanta a palla e la gente che si dimena. Altrove, c'è gente che guarda alla tv del pub i goals del campionato spagnolo. L'indomani la partenza è prevista abbastanza chizzo, anche perché l'aeroporto è annunciato come particolarmente caotico, con possibilità di file interminabili. Per non rischiare arriviamo in anticipo e non c'è un cane. Abbiamo tuttavia il tempo di acquistare t-shirt alla metà del prezzo del Beatles Shop, plettri, tazze e quant'altro. Il viaggio ormai è finito e l'unica cosa che ci vorrebbe (oltre al sandwich al tonno) è una bella doccia. Dopo aver sonnecchiato per oltre un'ora, atterriamo placidamente: siamo fra i pochi che non siano inglesi in vacanza. Sprintiamo come Bolt per fare per primi i controlli, convinti di sbrigarci in fretta. Purtroppo alla dogana c'è un controllore fantozziano che non è convinto della mia carta d'identità. Ci spiega con la sua faccia di cazzo che c'è stata un'allerta sulle carte d'identità italiane falsificate. Ovviamente gli stessi controllori si dispongono tutti a novanta al passaggio degli inglesi (compresa suora vestita da suora da capo e piedi e con occhiali da sole). Pensiamo subito che notoriamente i tunisini in fuga fanno scalo a Liverpool, essendo tutti fans dei Beatles. Lo stronzo insiste, nonostante le spiegazioni. Alla fine le nostre facce scure lo costringono a chiamare la sua capa, una tizia allampanata che - si scoprirà poi - era intenta ad approfondire ben altre dinamiche al bistrot dell'aeroporto. La tizia ha le idee chiare e, per verificare la mia effettiva nazionalità tricolore, prende la carta, cerca di leggere e dice: "tu nome" e "tu coghnome". Mi astengo dal commentare che il sistema è quantomeno opinabile e ridendo sotto i baffi posso finalmente andarmene. Arrivederci, fanno quelli della dogana. Ma anche no, rispondo.     

giovedì 19 maggio 2011

I Float Down The Liffey

Evidentemente non ancora abbastanza sazia dopo l'abbuffata reale, La Tana del Grillo va di bis la settimana seguente, recandosi nientepopodimenoche nella verde Irlanda, per un previsto weekend ad alta gradazione alcolica. L'atterraggio in quel di Baile Átha Cliath viene preparato a dovere dalla presenza in aereo di autentico esemplare celtico maschio, che nel tragitto fra la capitale del Regno Unito e quella dell'Eire (durata: meno di un'ora) non resiste alla tentazione di scolarsi almeno due heineken volanti, mentre tutto sudato fornisce al suo vicino balbettanti spiegazioni riguardo il disincastrarsi della sua sindria formato famiglia dal tavolino reclinabile sul quale ha poggiato le lattine. Non giuriamo sul fatto che prima di salire in aereo fosse sobrio. That's the spirit. Dublino ci accoglie - manco a farlo apposta - bella e piovosa. Per fortuna il bus attraversa le varie tanche di ferula in periferia e ci molla ad un tiro di schioppo dall'hotel (pulito: unico aspetto positivo), posizionato nell'elegante quartiere georgiano, a ridosso del Grand Canal e proprio dietro St. Stephen's Green. La sera ci pare cosa buona e giusta - dopo l'obbligatoria peregrinazione lungo il Liffey - equipararci alla gioventù, cosicchè ci buttiamo a capofitto a Temple Bar, circondati da gente che caracolla in maniera inequivocabile. Durante la (ottima) cena a base di salmone dalla strada continua a giungere la musica. Dublino senza il suo sottofondo musicale perenne (e senza i suoi indimenticabili semafori sonori per i non vedenti) non sarebbe Dublino. I musicisti di strada si susseguono l'uno dopo l'altro senza soluzione di continuità: ci sono i vecchi con la barbetta gandalfiana ma più folk e la splendida voce straziata dal fumo, gli universitari dall'aspetto punkeggiante che hanno la chitarra scordata e i jeans strappati, i tizi qualunque con la camicia da boscaiolo che passeggiano accanto a te con lo strumento in mano e in un amen decidono che quell'angolino li' è perfetto per loro e si fermano e cominciano a suonare come se niente fosse. La canzone più gettonata (la ritroveremo anche dopo, appollaiati sulla vetrina di un pub, e poi dopo e poi l'indomani e via dicendo) resta questa qui. Alcune pinte dopo, se si eccettuano polacchi che ti si sbattono addosso e altri che ti chiedono con insistenza dove è possibile procurarsi una canna, puoi andare a dormire soddisfatto. Del resto il clima è allegro e rilassato come l'ultima (e unica) volta in cui ci eravamo stati, ben altra cosa dall'alcolismo autodistruttivo al quale abbiamo assistito non più di cinque giorni prima. Neanche a dirlo, Temple Bar ma Dublino in generale pullula di italiani, compreso un ristorante/pizzeria/gelateria che non possiamo evitare di provare. 
L'indomani si parte col turbo, frutto di una bella colazione da campioni in un posticino assai gradevole in Grafton Street (quasi di fronte, c'è un tizio che suona pezzi di Elvis col basso ed ha il berretto pieno di monetine): stile vittoriano, spremute d'arancia, fagioli, salsiccione e thè col latte. Pur essendo il tutto veramente buono, il giorno dopo, pre-partenza, si opterà per un "continental breakfast" allo scopo di preservare il fegato per il resto della stagione. La colazione dà modo di riflettere che la cosa bella della città, oltre alle pinte, alla musica e al verde dappertutto, è la gente. Persone semplici e gentili, ma di una gentilezza autentica, ovunque le si incontri, che non rasenta mai l'invadenza o la ruffianaggine. Inoltre gli abitanti di Dublino sono giovani. Ma non come in Italia, dove lo si è fino a cinquant'anni: qui la maggior parte di quelli che incontri (a parte i turisti, ok) hanno meno di trent'anni. Ed è cosi' al pub, in libreria, al parco, alla fermata dell'autobus. Perfino i poliziotti (la mitica Garda) sono all'apparenza dei ragazzini. Con questa leggerezza nel cuore (e con l'Irish full breakfast in pancia) si visitano in serie: il Dublin Castle, la Chester Beatty Library Gallery, la Christ Church Cathedral e - last but not least - la cattedrale di Saint Patrick. Il Trinity College verrà visitato a tappe, con la promessa di farlo con calma l'ultima sera, tanto è sempre di strada: l'ultima sera, ovviamente, lo si troverà chiuso presto. La fame fa capolino tardi, come previsto, ma non si rinuncia al pranzo presso il pub Bruxelles (quello con la statua di Phil Lynott fuori), accompagnando il pasto con altre due pinte e con il primo tempo alla tv di Everton-Manchester City. Accanto a te puoi incontrare il sessantenne indigeno che vuole vedere la partita, i turisti, la madre di famiglia coi bambini (e con la pinta), il gruppo di amici che si ritrova per fare quattro chiacchiere (e che se la beve di brutto). Il pomeriggio, oltre a digerire il pranzo, si decide di visitare anche l'altra riva, quella proletaria e decisamente meno turistica. Prima si becca uno splendido mercatino delle pulci, dove i presenti (sono le 4 del pomeriggio) sono tutti a birroni, poi si risale lungo O'Connell Street, alzando lo sguardo per capire quanto cazzo è alta The Spire e assaporando l'aroma di fish'n'chips che non si scrosterà più dai vestiti fino... beh fino a poco fa. L'atmosfera è simpatica, forse anche perchè è in corso una manifestazione per la legalizzazione della marijuana e il profumo che aleggia al Garden of Remembrance sostituisce almeno parzialmente quello del fritto. La sera si decide di dare tregua al fegato, infilandosi in un sushi bar ma poi addio sogni di gloria con doppia pinta al Duke, bel pub situato in traversa di Grafton Street. Ancora una volta i camerieri (e pure i clienti) sono tutti sorridenti e gentili ed è incredibile come tutto questo non ti dia fastidio o non risulti esagerato. Oppure magari fingono di essere gentili, pero' lo fanno talmente bene che hai voglia solo di gustare la tua Guinness senza rotture di palle. A proposito di Guinness: non possiamo terminare il post senza citarla. A Dublino il merchandising relativo alla Guinness è addirittura opprimente: ci sono innumerevoli punti vendita con oggetti che vanno dalle magliette ai cavatappi, ai cappelli da baseball col cavatappi sulla visiera, agli accendini. I prezzi, tuttavia, sono mica tanto invitanti (Dublino non è nient'affatto economica e non dà assolutamente l'idea di essere la capitale di una nazione in grossa crisi economica, anzi: bisognerebbe vedere le altre città, pero'), per cui la tentazione di acquistare il gadget, come fanno esattamente tutti quelli intorno a te è forte ma insomma, anche no. Infine il suddetto gadget verrà acquistato, non in città ma in aeroporto (eh già), ed è il seguente: una presina per cucina Guinness, una roba morbidissima per mani giganti, beige coi bordi rossi, con in bella mostra il celebre tucano. (Lo abbiamo già testato col forno, mentre col caffè è più complicato, per via delle dimensioni: non si riesce a stringere bene il manico della caffettiera). Tutti contenti col nostro tucano, siamo ormai pronti per salutare Dublino. L'ultima volta giurammo che non sarebbe stata l'ultima. Idem per stavolta. Nel frattempo, qualche breve scroscio di pioggia annuncia l'imbarco per la prossima destinazione. Che non è troppo lontana, giusto dall'altra parte del Mare d'Irlanda. (continua)  

domenica 15 maggio 2011

Un Buon Non Compleanno A Me

La Tana del Grillo riapre idealmente i battenti in una bella e soleggiata giornata di fine aprile, giorno che casualmente è anche il compleanno di chi vi scrive nonché la data designata di un matrimonio del quale si parla da un po', tipo da secoli. Coincidenze. O forse no. Fatto sta che, tecnicamente, il giorno è lo stesso. E allora, perchè non osare? Avete capito benissimo di cosa stiamo parlando. Farsi festeggiare da decine di migliaia di persone in festa. Ma non in festa per il tuo compleanno. In festa per altro, anche se non lo sanno, perchè le suddette persone sono ubriache fradicie dalle 9 del mattino. Ebbene si': la Tana del Grillo is back. E ricomincia la sua corsa da Londra.
Innanzitutto il fottuto matrimonio reale è al manzano, mentre l'arrivo in città è previsto nel pomeriggio, previo smarrimento pre-albergo nella ridente zona dei Docks. Dunque non vediamo assolutamente un cazzo. Le prime immagini dei neosposi sono disponibili sui giornali in edizione speciale (diffusi ovunque), poi la notte, alla tv, si potrà cominciare a discutere con cognizione di causa dei vestiti, dei barattoli attaccati al paraurti, dei cazzi e dei mazzi. Tuttavia, gli indigeni mandano un segnale forte, mostrando di apprezzare in modo esagerato gli avvenimenti. Alcune zone della capitale sono invase da mandrie di bestiame a due zampe con indosso maschere della regina, maschere di Kate, maschere a forma di bandiera britannica, maschere dei supereroi. Ogni tanto qualcuno ti dà il cinque con la faccia di William o ti consegna una bandiera. Bandiere dappertutto. Dei ciclisti sfilano accanto ai bus con le loro belle Union Jack sulle spalle. Trafalgar Square, tanto per intenderci, è una gigantesca discarica e assomiglia sinistramente ad un post-partita della finale dei Mondiali. C'è un palco enorme sul quale hanno montato un megaschermo, c'è gente strafatta che rantola per terra (che è un tappeto di lattine) e ride, c'è il chitarrista con accento australiano circondato dal solito drappello di curiosi (e di turisti) mentre si cimenta in alcuni classici intramontabili, c'è il market dei pakistani all'angolo preso letteralmente d'assalto dall'orda di personaggi di grande spessore con fame chimica da esportazione. I pakistani se la godono. Ciononostante, il clima è festoso e rilassato, e non c'è alcun problema neppure con i trasporti, o la polizia. Qualche ora di National Gallery dopo, l'atmosfera nei dintorni di Piccadilly è invece assai meno gradevole: i passanti hanno appena cominciato a bere e non danno l'impressione di voler smettere troppo presto. Tu, che hai fame e stai cercando un posto decente che non sia il paraculeggiante ristorante da Franco (e c'è Franco in persona sulla soglia a dare lustro alla nazione) o gli altri mille ristoranti paraculeggianti, avresti voglia di abbatterli tutti senza pietà, come birilli. Si finisce chiaramente per cenare in ristorante paraculeggiante. 
L'indomani si opta di buon mattino (cioè verso le 11, dopo un più che sostanzioso breakfast) per scampagnata a Camden Town, memori delle ottime vibrazioni di qualche anno prima. Cosicché parecchi chioschi e di mercatini più tardi, rientri verso il centro con il piacevore odore di fish and chips che ti accompagna fin dentro le ossa e osservi i tuoi acquisti, risultato di lunghe trattative con venditori di nazionalità varie, le quali trattative ti faranno risparmiare cifre come una sterlina o tutt'al più una sterlina e mezzo. Il meglio lo si dà in un posto chiamato Cyber Dog, che sarebbe (appunto) un negozio cyberpunk dove è possibile comprare qualunque cazzata venga in mente, basta che abbia una qualche attinenza con i videogames, le discoteche o le cazzate. Musica a palla, un piano sotterraneo, luci stroboscopiche, prodotti fluorescenti, commessi con le creste. Infine due ballerini (inevitabilmente tamarroni) che si dimenano sul cubo, al lato della cassa e dietro alla consolle del dj. Il risultato è l'acquisto - giuro- di un aggeggio in grado di creare i cubetti di ghiaccio (!) con le forme di Space Invaders. Non commentiamo gli altri ottocento negozi di Camden, sebbene meritino ben altro trattamento. Non incontriamo neppure la vietnamita che anni fa ci vendette bandiera francese spacciandola per Union Jack: a nostra discolpa, era imbustata. Dopo queste fantastiche avventure urge meritato riposo ad Hyde Park, al cui ingresso c'è una comitiva di studenti cagliaritani, poi un gruppo di siriani alquanto incazzati che manifestano, e ancora gli scoiattoli. Rinvigoriti, puntiamo prima in direzione British Museum - che pero' sta chiudendo e ci regala solamente il tempo di fare conoscenza con i suoi leggendari cessi - e poi verso Southwark, con l'intenzione di fare un salto alla Tate Modern. Alla Tate è impossibile non perderci ore, malgrado non sia la prima volta, e infatti ci si resterà fino a tarda ora, tanto è gratis. Stanchi e affamati come coguari, usciamo. Fuori, nel frattempo, fa freddo e tira un vento della madonna. I turisti che giungono dal Millennium Bridge fanno tutt'uno coi gabbiani. Si cerca un riparo dalla furia degli elementi, costeggiando il Tamigi. A qualche centinaio di metri di distanza ci si imbatte in ristorante giapponese serissimo, con annessa cameriera italianissima. I tavoli non sono dei tavoli ma panche e la nostra panca dà sulla vetrina all'ingresso. Di fronte c'è la strada, ovvero gente che esce dalla Tate, cinquantenni ubriachi in sandali e calze bianche, ragazzine dalle minigonne inguinali, ragazzine dalle minigonne inguinali con sopra disegnata la Union Jack, freaks vari, altri freaks. Inutile dire che TUTTI sono in maglietta a maniche corte (le ragazzine ovviamente sono in canottiera). Per fortuna fa caldo e il cibo è ottimo e soprattutto non è fish and chips. Rifocillati, riflettiamo sul soggiorno londinese ormai in fase finale e sull'ambiguo destino della Tana. Riflettiamo a lungo. Quello che ne consegue, ormai, lo state già leggendo.

giovedì 25 novembre 2010

Andare In Porto (Ma Non Torres)

Eccoci qua, amici ma soprattutto amiche de La Tana. Non abbiamo nemmeno fatto in tempo a dirvi che siamo tornati - peggio: che non ce ne siamo mai andati - che vi pensiamo, insomma che il cliente ha sempre ragione, ebbene non abbiamo nemmeno fatto in tempo che ci assentiamo subito. Oh si. Sarà che era nell'aria da un po' (si tratta di una prima volta), sarà che oggi ne è scesa letteralmente l'aria (chiedete al mio cappotto della nevicata di un paio di ore fa), sarà che gli indigeni ricordano non troppo vagamente la celeberrima cadenza sussinca, sarà che sono pure cazzi nostri. Fatto sta che La Tana, da domani e per una breve manciata di giorni, si trasferisce sulle coste del fottuto Oceano Atlantico, precisamente qua. Tranquilli, vi penseremo. E al nostro ritorno - se mai avverrà - non perdetevi l'ennesimo grande reportage de La Tana del Grillo, tutto a base di stanze d'albergo puzzinose, negri, sbronze, furti subiti e baccalà. Imperdibile, come sempre. Adeus.

domenica 12 settembre 2010

*E Chi Non Piscia In Compagnia...

Altra perla post-calcistica. Cliccate qua. Inutili ulteriori raccomandazioni. Fate refresh a piacimento. Oppure cambiate blog.
* il titolo del post non c'entra assolutamente una mazza col resto.

Being A Dickhead's Cool!



Lo so che dovrei postarlo nella colonnina di destra, ma non ho potuto resistere alla tentazione. (Trovato, manco a dirlo, qua.)

sabato 14 agosto 2010

Fallu Baddà!

Live from Via Carmelo a poche ore dalla Festha Manna. La Tana del Grillo - per la prima volta nella sua storia - è tutta quanta presente alla Faradda. Reduce da dosi eccessive di couscous e qualche mirto di troppo, il blog più chiacchierato del Nord Sardegna seguirà le vicende dei candelieri in esclusiva, per voi. Rendez-vous con mal di testa presso il quartier generale di Largo Cavallotti aka Angelinho's a partire dalle ore 18. A zent'anni!

giovedì 5 agosto 2010

Il Blog Che Spacca Il Culo A Facebook

Ebbene sì, gente. Come anticipato qualche chiaro di luna fa, La Tana del Grillo è sbarcata sul famoso social network. Il merito va ad un nostro affezionatissimo utente che ha deciso fin da tempi non sospetti di onorare il blog più amato dalle casalinghe di Voghera con una pagina facebook tutta sua. Tutta assaggiata. Alla fine, dopo mesi di sforzi e di richieste non esaudite, il suo sogno si è avverato. Per poterne usufruire cliccate qui. Prendete e godetene tutti.

venerdì 30 luglio 2010

Fare Le Cose Per Bene

Cazz. Se quando prendete il sole avete un problemino proprio lì, dove non si può dire in televisione, finalmente è arrivato qualcuno che ha pensato a voi. Da ora in poi nessun pinsamento sul vostro telo da spiaggia, nessuno spazio bianco da annerire tipo settimana enigmistica, bensì tanto divertimento, tanta spensieratezza e tanto bel colorito fra le chiappe. Il progresso umano non conosce più ostacoli. Danke a chi di dovere per la puntualissima segnalazione. Cazz.

martedì 29 giugno 2010

Falla Girare, Fraté!

Per farla breve: quello-che-ci-voleva. Please cliccare qua. (Questa è La Tana in versione mundiàl). Inoltre, si viene a sapere (il tutto proviene da qua) che pure su YouTube si sono messi d'impegno (cliccare il pallone in basso a destra per credere) Quando, fra qualche mese, ripenserete alle notti magiche ma non riuscirete a ricreare sufficientemente l'atmosfera potete cliccare di nuovo. Oppure bervene mille.

domenica 13 giugno 2010

Tremate, Tremate

Che ne dite? Questa simpatica proposta gioverebbe allo svolgimento delle operazioni?

giovedì 3 giugno 2010

Don't Try This At Home!

Per tutti coloro che hanno tempo da perdere, sprezzo del pericolo ed un senso dell'umorismo sviluppatissimo, tipo naso del cane da tartufi:
- opzione number one;
- opzione number three.
Per i malati di mente:
- opzione degenza prolungata (occhio al tennis).
Per tutti gli altri:
- opzione unica.

sabato 29 maggio 2010

Mr. Wayne And Mr. Freddie

Hey hey hey! Guardate un po' che cosa si trova in rete, di sabato manzano. Per tutti quelli, poi, che non dovessero resistere alla tentazione: vi risparmio la fatica. Baci.